La legge di bilancio 2019 ha istituito il Fondo indennizzo risparmiatori per le vittime dei recenti dissesti bancari. A molti risparmiatori e ad alcuni politici non basta. Ma le erogazioni quasi automatiche rischiano di essere ingiuste e inapplicabili.
Il paradosso
Negli anni del salvataggio delle banche di Michele Sindona, un grande giurista napoletano, Gustavo Minervini, scriveva: “che il povero cafone del Sud, che non investe una lira in banca, debba contribuire, in quanto cittadino, al ristoro, a me pare (ma forse non sono imparziale) una iniquità che grida vendetta”. Oltre quaranta anni dopo, la stessa questione si ripropone in veste ancora più problematica.
Non si placano le voci dei risparmiatori che hanno visto “azzerati” i loro investimenti nel capitale delle quattro banche del Centro Italia e nelle due “venete”: chiedono che lo stato li ristori delle perdite subìte. Comprensibili le proteste, meno comprensibile che taluni politici le cavalchino come se il Parlamento non avesse approvato – appena due mesi fa e stanziando 1,5 miliardi di euro – le norme sul Fondo indennizzo risparmiatori, presentate come finalmente risolutive.
Siamo scivolati in un paradosso: le norme sul ristoro ci sono, ma sembrano scritte per essere inapplicabili e creare un pretesto per un contenzioso con le autorità europee, accusate di penalizzare i risparmiatori. Vediamo perché.
Ricordare che lo stato non dovrebbe “ristorare” chi ha compiuto investimenti rischiosi è fin troppo ovvio, ma non va al cuore del problema. Certo, quando qualsiasi impresa fallisce, per primi ne fanno le spese coloro che hanno investito nel capitale di rischio: è il principio che governa ogni procedura concorsuale.
Ma i recenti dissesti bancari hanno complicato il quadro. Per anni le banche oggi fallite hanno fatto leva sulla loro posizione di intermediari per finanziarsi collocando i propri titoli presso la clientela: l’autocollocamento (self-placement) è stato accompagnato da politiche di “classamento” aggressive, spesso sconfinate in violazioni delle norme a tutela degli investitori. Talora, poi, i titoli sono stati sottoscritti quando ancora non operavano né la direttiva sulle risoluzioni bancarie né l’orientamento della Commissione europea che, nei salvataggi bancari, condiziona la concessione di aiuti di stato alla “condivisione degli oneri” a carico di azionisti e obbligazionisti subordinati.
È giusto, allora, che lo stato consideri l’opzione politica di ristorare i risparmiatori. Ma è qui che si annida l’equivoco.
Accertare le condotte illegittime
Gli improvvisati difensori del risparmio tradito sostengono che è “l’Europa” a impedire gli indennizzi, in base all’odioso bail-in. Non è così. La Commissione ha riconosciuto, a partire dal caso Monte dei Paschi di Siena, che lo stato può legittimamente farsi carico delle “conseguenze sociali” della condotta illegittima (mis-selling) della banca, perché si tratta di una misura solidaristica e non del vietato aiuto di Stato. Ciò che la Commissione esige di assicurare è che il denaro pubblico vada a ristorare chi è vittima di una condotta illegittima, non ogni investitore sfortunato; altrimenti, si finirebbe per rimborsare agli azionisti (a prescindere) il capitale investito in banche insolventi.
Occorre, allora, che l’accesso al fondo indennizzi sia la conseguenza dell’accertamento di condotte illegittime (mis-selling) verso il singolo investitore. Non basta che le violazioni fossero “massive” e rispondessero a una “prassi” interna di quegli istituti: devono pur sempre aver colpito singoli soggetti da individuare nel variegato insieme dei “risparmiatori”, e ciò deve emergere da un’analisi caso per caso (si auspica spedita, anche superando il sistema di arbitrati oggi in vigore). Al massimo, potranno essere previste eccezioni nei limitati casi in cui condizioni di reddito e istruzione facciano presumere “in astratto” l’inadeguatezza dell’investimento per il singolo. In altre parole, la verifica delle situazioni individuali dovrà essere sufficientemente seria da evitare che il contribuente medio – che, per sua fortuna, ha probabilità relativamente scarse di aver investito in quelle banche – si trovi a dover sussidiare quanti hanno concentrato i propri risparmi su azioni spesso dichiaratamente illiquide, e talora come contropartita della concessione di credito “facile”.
È meglio, insomma, tenersi alla larga dalle erogazioni “automatiche” che molti invocano. E non per compiacere Bruxelles, ma per evitare un assurdo conflitto tra il “cafone” di Minervini e il pensionato veneto. Chi agisce diversamente non rende un buon servizio né ai risparmiatori traditi (che rischiano di veder congelate le misure di ristoro), né ai contribuenti (specie se indennizzi “a pioggia” saranno finanziati, tanto per cambiare, col debito).
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