Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna chiedono più autonomia e più risorse. Ma l’operazione è complessa, sotto il profilo politico e tecnico. E la Consulta dovrà esprimersi su moltissimi aspetti di conflitto con i principi fondamentali della Repubblica.
Le richieste di Veneto e Lombardia
Il tema dell’ “autonomia regionale differenziata” delle regioni merita certamente una discussione politica e tecnica ben più ampia di quanto avvenuto finora.
Le richieste di Veneto e Lombardia, maturate negli ultimi anni ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, sono esplicitamente finalizzate a ottenere, sotto forma di quote di gettito dei tributi erariali da trattenere sul proprio territorio, risorse pubbliche maggiori rispetto a quelle oggi spese dallo stato a loro favore. La richiesta di più autonomia e più risorse è dopotutto il cavallo di battaglia identitario della Lega Nord sin dagli anni Novanta. E un recente contributo di uno di noi ne ripercorre le vicende.
Le risorse sono state il tema dominante della campagna per i referendum consultivi che si sono tenuti in entrambe le regioni nell’ottobre 2017: era comune l’invito a recarsi al voto per rafforzare politicamente la richiesta del cosiddetto “residuo fiscale”. L’allora presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, aveva indicato l’obiettivo di trattenere in regione 27 miliardi; in Veneto la cifra era stata esplicitata dal Consiglio regionale nei nove decimi dei tributi riscossi nella regione.
Le richieste hanno trovato un primo seguito nelle pre-intese siglate (con le due regioni e l’Emilia-Romagna) dal governo Gentiloni il 28 febbraio 2018, quattro giorni prima delle elezioni politiche. Vi è stato stabilito che le risorse nazionali da trasferire per le nuove competenze siano parametrate, dopo un primo anno di transizione, a fabbisogni standard calcolati tenendo conto anche del gettito fiscale regionale; fatto comunque salvo l’attuale livello dei servizi (cioè prevedendo variazioni solo in aumento).
Gettito fiscale e fabbisogni standard
Il gettito fiscale non è mai stato considerato nei complessi calcoli dei fabbisogni standard per i comuni, finora collegati sempre e solo alle caratteristiche territoriali e agli aspetti socio-demografici della popolazione. Parametrizzare il fabbisogno al gettito è una novità fondamentale. Per i possibili esiti sulle relazioni finanziarie tra i livelli di governo, soprattutto in condizioni di finanza pubblica che rendono difficile aumentarle per alcuni territori senza diminuirle per gli altri. E perché significa stabilire un principio estremamente rilevante: i diritti di cittadinanza su alcuni servizi essenziali (a cominciare da istruzione e salute) possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito regionale è più alto perché maggiore il fabbisogno.
Il percorso attuativo dell’autonomia differenziata prevede che il governo concluda un’intesa con ciascuna delle regioni: per il 15 febbraio prossimo, stando a recenti dichiarazione del presidente del Consiglio Conte. L’intesa verrà poi sottoposta alle Camere, che non avranno possibilità di emendarla né di entrare nel merito dei suoi contenuti ed esprimere indirizzi. Potranno approvarle, con un voto a maggioranza degli aventi diritto, o respingerle. Se le intese saranno approvate dal Parlamento (è prevedibile entro le elezioni europee del prossimo maggio), tutto il potere di definizione degli specifici contenuti normativi e finanziari del trasferimento di competenze e risorse (inclusi i fabbisogni) è demandato a commissioni paritetiche stato-regione. Parlamento e governo non possono modificare le intese se non con il consenso delle regioni interessate; né il Parlamento può intervenire sulle decisioni delle commissioni. Non è possibile un referendum abrogativo delle intese.
E i diritti dei cittadini?
Certamente, al di là del riferimento al gettito fiscale, definire i fabbisogni standard per quantificare i costi dei servizi pubblici è opportuno. Tuttavia, la definizione di parametri oggettivi di fabbisogno è complessa, come ha dimostrato negli ultimi anni l’esperienza dei servizi comunali. Non solo tecnicamente, ma perché richiede un’azione politica importante del governo centrale di mediazione degli interessi delle diverse comunità coinvolte. L’uso di diversi indicatori tecnici può infatti produrre esiti assai differenti soprattutto in un Paese come l’Italia, dove l’eterogeneità tra i territori è molto elevata. Richiede una discussione approfondita e trasparente.
Questo ancor più perché, finora, il legislatore nazionale non ha mai provveduto alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (in attuazione dell’articolo 117.II.m della Costituzione) che dovrebbero essere invece il punto di partenza per il calcolo dei fabbisogni standard. La loro definizione dovrebbe essere un prerequisito essenziale per l’attivazione del federalismo asimmetrico.
Infine, poiché le pre-intese richiamano anche l’articolo 119 (quarto comma) rimane anche da capire la sua cogenza perequativa rispetto alla parametrizzazione dei fabbisogni al gettito di tre regioni che producono circa il 40 per cento del Pil nazionale.
Si può solo immaginare che la Corte costituzionale verrà chiamata a esprimersi su moltissimi aspetti di conflitto fra quanto verrà deciso e i principi fondamentali della Repubblica, aprendo così anche una lunga stagione di incertezza normativa.
Tutto ciò sinteticamente illustra come le conseguenze di una affrettata approvazione delle richieste regionali, sotto la spinta di contingenze e interessi politici, potrebbero essere assai gravi sotto una pluralità di aspetti. Sarebbe opportuno che i tanti risvolti del tema fossero discussi, prima della firma di qualsiasi intesa, nelle sedi parlamentari opportune, e chiaramente illustrati all’opinione pubblica italiana dai mezzi di informazione.
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