Presentata dal M5s in un emendamento alla legge di bilancio, la tassa sulle bevande gasate è stata subito bocciata dalla Lega. Ma per ridurre l’obesità più che un’imposta serve un approccio che spinga i cittadini a modificare le loro scelte alimentari.
Strategie contro l’obesità
La tassa sulle bevande gasate muore ancora prima di nascere. Presentata come emendamento al disegno di legge di bilancio dal Movimento 5 stelle, è stata bocciata da Matteo Salvini, che anzi propone di abbassare l’accisa sulla birra per valorizzare i piccoli produttori.
A prescindere dalla posizione leghista, evidentemente collegata a valutazioni di carattere politico, le tasse sugli alimenti dannosi hanno sempre generato accese discussioni: in alcuni paesi sono in vigore da anni, in altri hanno avuto vita breve e risultati considerati del tutto marginali.
Certamente esistono evidenze empiriche che ne collegano gli effetti a sensibili riduzioni delle vendite, ma un reale miglioramento della salute della popolazione richiede tempo per essere accertato. E anche quando saranno disponibili i dati sanitari di alta qualità che per il momento mancano, sarà molto difficile stabilire specifici progressi della salute dovuti a singole misure politiche.
Però, non si può più aspettare.
Il reale obiettivo di una tassa di questo tipo dovrebbe essere la riduzione dell’obesità, che è considerata un problema multifattoriale e multilivello. E le bibite gasate, con un nesso ormai da tempo accertato con patologie cardio e cerebro-vascolari, ne rappresentano una piccolissima parte, visto che il consumatore abituale le accompagna giornalmente a diversi altri cibi spazzatura pieni di sale, zuccheri e grassi trans, quasi tutti di produzione industriale.
Si tratta di alimenti acquistabili ai prezzi più bassi del mercato, ai quali siamo portati ad associare immagini di allegria e socialità per l’imposizione di pubblicità invasive; soprattutto sono cibi già pronti e immediatamente consumabili, disponibili pressoché ovunque.
Ma la sugar tax rappresenta una soluzione realisticamente percorribile e desiderabile in questo contesto?
Le analisi e i contributi di alcuni esperti dimostrano che l’imposizione selettiva distorce il mercato, riducendo la libertà di scelta del consumatore; e ha tendenzialmente un impatto regressivo, impoverendo le fasce più deboli. Ma soprattutto – se utilizzata al di fuori di un quadro coordinato di specifiche azioni multidisciplinari e multilivello – non sembra raggiungere l’obiettivo prefissato. Il consumo si sposta infatti su altri alimenti, lasciando invariato l’apporto calorico e vanificando ogni azione. Potrebbe invece essere inserita all’interno di una pianificazione più ampia, possibilmente comprensiva di incentivi per i cibi più utili alla salute, spingendo gentilmente le persone a migliorare le loro scelte alimentari. Per esempio, circa un quarto degli italiani che dichiara di non mangiare abbastanza frutta fresca, ne mangerebbe di più̀ se costasse un po’ meno, e circa un quinto farebbe la stessa cosa con la verdura e gli ortaggi. È su questa linea anche l’Oms, che ne raccomanda l’imposizione in un contesto politico coerente.
Del resto, riuscire a ottenere una rimodulazione dei comportamenti e delle abitudini individuali è molto difficile, pochi centesimi in più non bastano. L’evidenza scientifica mostra infatti che la neurochimica cerebrale, nel realizzare lo stato carenziale, condiziona il comportamento spingendo il consumatore a soddisfare in ogni modo la propria necessità, con parallelismi inquietanti rispetto ad altre dipendenze.
Ancora più difficile è modificare le scelte nutrizionali su una scala più vasta, per ampi settori della popolazione, come vorrebbero fare in genere le politiche sanitarie pubbliche.
D’altra parte, non bastano neanche i sistemi di etichettatura: da tempo, diversi studi rivelano che le informazioni orientate alla modifica dei regimi alimentari, comunicate solo attraverso l’etichetta, hanno dato risultati limitati nel condizionamento dei comportamenti del cittadino e possono condurre addirittura a eccessi di consumo.
Modificare i fattori ambientali
Occorre perciò modificare in modo efficace le scelte che condizionano lo stile di vita dei cittadini, come i modelli applicativi del marketing sociale e del nudge (la spinta gentile) promettono di fare, indirizzando utilmente i comportamenti alimentari dei consumatori per scopi diversi, attraverso la correzione di alcune caratteristiche degli ambienti in cui vivono, e concentrandosi sulle ragioni che inducono a scelte alimentari improprie.
Peraltro, accreditati studi epidemiologici rivelano che le modalità d’insorgenza e sviluppo dell’obesità si realizzano sistematicamente a macchia di leopardo, in zone urbane e sub-urbane a basso reddito. Ne consegue che l’individuazione di ambienti obesogenici può essere verificata attraverso parametri definiti, permettendo di evitare interventi a pioggia, per privilegiare azioni specifiche tese alla modifica dei microambienti, con misurazione e controllo adeguati.
Il fattore ambientale è d’altra parte cruciale per l’obesità infantile, tanto che alcune amministrazioni hanno concentrato l’attività proprio sulla cura dei contesti, realizzando modelli particolarmente avanzati, atti a influenzare positivamente le abitudini alimentari degli alunni.
Il ruolo delle regioni rimane quello di modellare gli interventi in relazione alle evidenze epidemiologiche, in conformità agli aspetti di carattere sanitario e contabile-amministrativo sul territorio, rispettando le differenti necessità di ogni specifica area. Un ruolo di grande rilevanza potrebbe essere giocato dalla contabilità sociale delle Asl nell’intercettazione e il monitoraggio delle aree di disagio. Non meno rilevante appare un collegamento funzionale con le imprese industriali, specie per quanto riguarda accordi di miglioramento sulla composizione dei prodotti e sulla rimodulazione delle attività di comunicazione commerciale.
Riposi dunque in pace la sugar-tax se la sua attuazione deve avvenire in uno stanco assolo, senza una visione sistemica delle caratteristiche epidemiologiche della patologia che sarebbe chiamata a ridimensionare.
Siano invece benvenuti nuovi approcci basati su evidenze epidemiologiche e forti collegamenti di collaborazione multidisciplinare fra gli attori principali, in un’azione integrata ed efficace, da erogarsi dove necessario.
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