Nel breve periodo, “quota 100” può contribuire a un ringiovanimento della forza lavoro, seppure aumentando in maniera strutturale la spesa per pensioni. Però, il problema di lungo termine sembra quello di creare opportunità di occupazione per tutti.
Come il governo “smantella” la riforma Fornero
Dopo mesi di annunci relativi allo “smantellamento” della riforma Fornero, con la Nota di aggiornamento al Def l’esecutivo inizia a definire in modo più preciso le modalità e gli argomenti a supporto della sua politica pensionistica.
Nel 2019 i lavoratori che desidereranno uscire in anticipo rispetto all’età legale di pensionamento dovranno confrontarsi con la “quota 100”. Nel testo inviato dal governo al parlamento, il fatidico numero vale a partire da un’età di 62 anni e con un’anzianità contributiva di 38. Nulla di più traspare dal testo, anche se sembra che al crescere dell’età, il requisito contributivo di 38 anni rimarrebbe fisso. Da ciò deriverebbe che a 63 anni la somma di età e contributi sarebbe 101 e non 100 e così via per le età successive. Solo in questo modo i 7 miliardi di euro disponibili per il provvedimento saranno compatibili con la platea di chi maturerà il diritto. Non sarebbero invece previste penalizzazioni per chi accede alla pensione anticipata. La direzione sembra segnata: misure più ampie, quali ad esempio la possibilità di uscire con la sola anzianità a 41 anni, sarebbero incompatibili con i paletti dei saldi del bilancio pubblico.
L’impegno finanziario è comunque importante, anche perché la misura è strutturale e va valutata soprattutto per i suoi effetti di medio-lungo termine. Peraltro, interviene in continuità con altri interventi – le nove salvaguardie per gli esodati, l’Ape sociale e volontaria, la riproposizione dell’opzione donna – che hanno reso meno forte l’irrigidimento sull’età di pensionamento introdotto dalla riforma Fornero, riducendone i risparmi attesi.
Ricambio generazionale nel mercato del lavoro
L’aspetto più interessante del testo governativo riguarda però la dichiarazione sulla finalità ultima del provvedimento, ovvero la realizzazione di un deciso ricambio generazionale nel mercato del lavoro. Secondo l’esecutivo, la combinazione di un numero crescente di lavoratori più giovani e di progresso tecnologico sarebbe infatti in grado di rendere più efficiente il processo di produzione di beni e servizi e quindi, in ultima analisi, farebbe crescere maggiormente l’economia. La risposta dell’esecutivo al fenomeno della caduta nelle opportunità lavorative per i giovani, in corso ormai da più di un decennio, è quindi spingere fuori dal mercato del lavoro quelli più anziani.
Non c’è traccia, nei ragionamenti del governo, né di politiche di invecchiamento attivo, ovvero di interventi volti a rendere graduale e progressivo il passaggio dei lavoratori verso il pensionamento, né di forme di flessibilità sulla scelta dell’età, capaci di ridurre l’importo della pensione in relazione alla distanza tra quella di pensionamento e l’età legale di uscita. Il primo tipo di politica avrebbe il vantaggio di agevolare il passaggio di conoscenze tra chi esce e chi entra nel mercato del lavoro. Il secondo potrebbe rendere meno costoso il processo di ringiovanimento della forza lavoro. Ogni pensionato aggiuntivo, in un sistema a ripartizione, aumenta il costo del lavoro o il debito pensionistico. Per questa via, quota 100 rischia di far crescere il cuneo fiscale e quindi di rendere meno competitiva la produzione italiana.
Per avere un riferimento quantitativo su quanto accaduto negli ultimi anni, la figura 1 confronta, in Italia e in Europa per il periodo 2000-2017, la dinamica del numero di occupati tra i lavoratori più giovani (15-34) e quelli più anziani (55-69).
Figura 1 – Dinamica normalizzata dell’occupazione tra i lavoratori più giovani e quelli più anziani in Italia e Europa. 2000-2017
Fonte: Elaborazioni da Labour Force Statistics
Fatto pari a 100 il numero di lavoratori di età 55-69 nel 2000, nei diciassette anni il dato è raddoppiato. La dinamica italiana è risultata più intensa di quella europea a partire dal 2013. La progressiva restrizione delle condizioni di pensionamento non è dunque un fenomeno nazionale, anche se in Italia la sua intensità è risultata maggiore negli ultimi anni. È anche vero che il nostro paese partiva da tassi di occupazione tra i lavoratori più anziani sensibilmente più bassi (circa 10 punti percentuali) rispetto a quelli di molte altre nazioni europee.
Il lavoro dei giovani
Per i lavoratori più giovani le cose sembrano invece andare in maniera decisamente diversa. In Italia la riduzione degli occupati è molto più pronunciata rispetto a quanto successo nel resto d’Europa. Fatto 100 il numero di giovani occupati nel 2000, oggi nella medesima condizione ne troviamo 65. Il resto d’Europa è passato, nello stesso periodo, da 100 a 94. La peculiarità italiana dunque sta in quanto accaduto nella parte giovane della popolazione. Si tratta di un enorme spreco di risorse che ha implicazioni sulla crescita oggi e sul futuro pensionistico dei giovani.
La figura 2 propone il medesimo confronto sull’occupazione tra Italia ed Europa, questa volta su tutta la popolazione.
Figura 2 – Dinamica normalizzata dell’occupazione totale in Italia e Europa. 2000-2017
Fonte: Elaborazioni da Labour Force Statistics
In questo caso, risulta evidente il maggior costo in termini di occupazione complessiva pagato dall’Italia. Fatto 100 il numero di occupati nel 2000, l’Italia è oggi a 108, mentre il resto d’Europa è a 114. In altri termini, anche la dinamica dell’occupazione, oltre che quella della produttività, risulta da noi meno brillante.
In conclusione, è possibile che quota 100, nel breve periodo, possa in parte rispondere alle problematiche dell’occupazione nella fascia più giovane della popolazione, al costo però di aumentare in maniera strutturale la spesa per pensioni. Ma il problema di lungo termine sembra più quello di creare opportunità di occupazione per tutti e non quella di sostituire lavoratori anziani con lavoratori più giovani.
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