La Buona scuola prevede che dopo aver vinto il concorso e prima di entrare in aula i futuri insegnanti seguano un percorso formativo di tre anni. Il ministro Bussetti vuole mantenere il concorso, ma eliminare la formazione. Ecco perché è un grave errore.
La Buona scuola e il reclutamento degli insegnanti
La legge 107 del 2015 (nota come “Buona scuola”) prevede per l’assunzione degli insegnanti una fase transitoria e una a regime. Pur tra controversie, ricorsi, sentenze di giudici amministrativi, la prima fase è in attuazione ed è quella più conosciuta dalla pubblica opinione. La fase a regime, invece, non è ancora iniziata, ma il ministro Marco Bussetti, in una intervista, ha già manifestato l’intenzione di cambiarla. Vorrebbe infatti cancellare le norme che prefigurano una seria preparazione dei docenti alla loro professione.
Ma procediamo con ordine. La fase transitoria per l’assunzione degli insegnanti è ancora legata al sistema delle “graduatorie”, nelle quali i punteggi premiano soprattutto l’anzianità di servizio precario. È proprio questo aspetto che ha determinato l’età media elevata non solo dei docenti nel loro complesso, ma anche dei nuovi ingressi – un effetto a parole da tutti deprecato, ma che così si è finito per favorire.
Sempre secondo la legge 107/2015, a regime il reclutamento avviene invece esclusivamente per concorso, con le procedure precisate dal decreto legislativo 59 del 2017. Al concorso possono partecipare i laureati (anche neolaureati) che abbiano nel curricolo, oltre agli insegnamenti relativi ai contenuti disciplinari, alcuni esami a carattere didattico. La novità principale (non prevista nel testo governativo iniziale, ma dovuta a un emendamento parlamentare dell’onorevole Manuela Ghizzoni) consiste però nel fatto che appena reclutati, i vincitori del concorso non vengono spediti subito in classe e devono invece seguire un triennio di formazione: corso di specializzazione universitario al primo anno, e sul campo (seguiti da insegnanti in servizio “esperti”) al secondo e terzo anno.
In passato, invece, l’abilitazione all’insegnamento era acquisita prima del reclutamento, per esempio attraverso i corsi universitari noti con le sigle Ssis-scuola di specializzazione all’insegnamento secondario (biennale) o Tfa-tirocinio formativo attivo (annuale). Ciò portava a decine di migliaia di abilitati in attesa di impiego o precari, e di conseguenza alle “graduatorie”.
Formazione da sostenere
Nell’intervista che abbiamo citato all’inizio, il ministro dell’Istruzione ha confermato il reclutamento solo per concorso (e lo ha rivendicato come novità, come se la legge non lo prevedesse già), ma ha annunciato che il triennio formativo non ci sarà: concorso e poi subito in classe. Il ministro non ha specificato se rimarrà la clausola di avere qualche credito universitario a carattere didattico per potersi presentare al concorso. In ogni caso, però, è una parte del curricolo assai limitata in tutti i corsi di laurea, sicché il concorso valuterà quasi esclusivamente le conoscenze disciplinari. Con la soppressione della fase formativa successiva al reclutamento si torna al meccanismo voluto da Giovanni Gentile nel 1923: nessuna preparazione professionale per chi sceglieva di fare l’insegnante, esclusivamente “materia”. Quello degli anni Venti era però un sistema nel quale i docenti dei licei avevano in classe solo i figli di chi aveva una biblioteca a casa.
Nella società di oggi, con l’aumento della scolarità (oltretutto ancora insufficiente in Italia se ci si confronta a livello europeo), non occorrono insegnanti che siano chiusi nel guscio della loro disciplina, impreparati ad affrontare le tematiche relative alla gestione della classe e quelle delle relazioni tra scuola e territorio circostante, e neppure pronti a stabilire un rapporto costruttivo con i colleghi.
Beninteso, le modalità con le quali organizzare il triennio post-reclutamento andrebbero studiate con cura: la necessaria collaborazione tra università e sistema scolastico prima per progettarlo e poi per gestirlo in modo efficace sarebbe tutta da costruire. E sarebbe una costruzione difficile, perché occorrerebbe superare le tradizionali resistenze a iniziative interistituzionali e le consolidate reticenze dei professori (sia universitari sia secondari) a lavorare in équipe.
In questo momento, però, il primo obiettivo è indurre il ministro a non rinunciare al triennio formativo per gli insegnanti. La pressione non può venire solo dall’interno del mondo scolastico e universitario, che peraltro è al riguardo molto diviso. Occorre che a reagire sia la “società civile”, se è consapevole del fatto che insegnanti chiusi entro le proprie barriere disciplinari non daranno alle future generazioni quelle competenze, anche quali cittadini, delle quali oggi più che mai si sente la mancanza.
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