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Fare i conti con la gig economy

Solo in Italia nella gig economy lavorano oggi circa 700 mila persone. È un fenomeno in evoluzione. Per questo, regolamentarlo è importante, per tutelare i lavoratori, ma anche le imprese. I risultati di uno studio della Fondazione Debenedetti.

La rivoluzione della gig economy

Per quelli della mia generazione, il lavoro significava indipendenza, sicurezza e garanzia di una vita dignitosa. Con il tempo le cose sono però cambiate e il mondo del lavoro è diventato molto più complesso, sempre più caratterizzato da attività temporanee, stagionali, a contratto o part time. La gig economy è la rappresentazione estrema di questo cambiamento. In essa il posto di lavoro non esiste più; è stato spacchettato in tante piccole mansioni che durano poco e pagano solitamente poco. Il loro svolgimento viene assegnato ai lavoratori su richiesta e i salari vengono definiti dalla dinamica della domanda e dell’offerta. Il lavoro non è più coordinato dall’imprenditore, ma attraverso piattaforme digitali che permettono anche di tenere sotto costante osservazione l’attività dei lavoratori e di sottoporla al giudizio dei consumatori. Un modello introdotto da Uber creando due app: una che gestiva l’offerta (coloro che erano disponibili a utilizzare la propria automobile per offrire un servizio di taxi) e l’altra destinata alla domanda (coloro che richiedevano il servizio di trasporto).

Secondo la narrazione offerta dai media e dagli operatori del settore, alla sua comparsa la gig economy rappresentava la possibilità per milioni di lavoratori di sfuggire alla subordinazione e alla rigidità di orari e regole (si veda Gigged, S. Kessler). E nel 2013 Forbes spiegava che consisteva in una rivoluzione che stava lentamente trasformando milioni di persone in imprenditori part time. A pochi anni di distanza ci si è resi conto che la gig economy ha sì creato opportunità per alcuni, ma per altri ha amplificato i problemi di insicurezza, instabilità e mancanza di tutele.

Lo studio della Fondazione Debenedetti

Capire esattamente le dimensioni e le caratteristiche di questa realtà non è affatto semplice poiché la tracciabilità del fenomeno è largamente incompleta. Secondo le stime di JP Morgan, nel 2016, il 4 per cento dei lavoratori americani lavorava o aveva lavorato attraverso una piattaforma digitale. La stessa percentuale viene riportata per il 2017 da uno studio relativo al Regno Unito. In Italia, nel 2018, secondo un’indagine condotta dalla Fondazione Debenedetti, i cui risultati preliminari sono riportati nel rapporto Inps 2018, gli impiegati nella gig economy sono 700 mila (per 150 mila persone rappresenta la principale occupazione, circa lo 0,4 per cento della popolazione in età 18-64).

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I lavoratori impiegati in questo “settore” rispondono a offerte di lavoro on line che riguardano mansioni disparate che vanno dalle consegne a domicilio (Glovo, Foodora, Deliveroo), al trasporto delle persone (Uber), ai lavori manuali (pulizie riparazioni ecc) e di cura (baby sitter) da svolgere presso il domicilio del cliente (Cicogne, TaskRabbit), alle consulenze informatiche, di sistematizzazione e tag di foto, di traduzione (UpWork, Freelancer, Amazon Mechanical Turk, Twago, Crowdflower, Vicker). Secondo i dati rilevati dall’indagine della Fondazione Debenedetti, in Italia il 54 per cento di questi lavoratori è di genere maschile e nella maggioranza dei casi (52 per cento) è in possesso di un livello di istruzione non elevato (scuola primaria, scuola secondaria inferiore, istituti secondari professionali). Si tratta perlopiù di lavoratori che si trovano in condizioni di difficoltà e utilizzano tali forme di lavoro per migliorare la loro situazione economica (il 75,2 per cento dei lavoratori della gig economy ha un reddito minore di 15 mila euro, contro il 31,8 per cento dei dipendenti e il 40,6 per cento degli autonomi).

Come si può notare dalla figura sottostante questo tipo di lavoro è diffuso soprattutto tra lavoratori di età compresa tra i 30-50 anni che decidono di arrotondare il proprio reddito (lavorando in media 10-14 ore a settimana guadagnano circa 350 euro). Vi sono però anche coloro per cui “il lavoretto” rappresenta l’attività principale (lavorando da 20 a 30 ore la settimana guadagnano in media 839 euro al mese). Non mancano, anche se non sono prevalenti, gli studenti che lavorano 1-4 ore settimanali a una paga media oraria di 12 euro. Sempre dall’indagine Debenedetti risulta che il 26 per cento dei lavoratori ha cominciato l’attività nella gig economy nell’ultimo mese, il 55 per cento negli ultimi sei mesi, il 15 per cento da più di un anno e meno di tre e il 13 per cento da più di tre anni.

Figura 1

L’indagine offre anche alcune interessanti informazioni sul grado di autonomia e di soddisfazione di questi lavoratori. Circa il 62 per cento sostiene di poter scegliere dove lavorare e il 75 per cento dichiara di avere autonomia circa i tempi di lavoro. Il 50 per cento apprezza pienamente le caratteristiche del proprio lavoro, il 32 per cento preferirebbe maggiore corresponsabilità e tutele, mentre il 19 per cento vorrebbe un’altra tipologia lavorativa.

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Vi è quindi una polarizzazione all’interno dei lavoratori gig: da un lato coloro che la usano come integrazione di reddito con alti livelli di soddisfazione e dall’altro lavoratori che usano questa tipologia di lavoro poiché non hanno altra possibilità.

Perché serve la regolamentazione

La percentuale non trascurabile di lavoratori che dichiarano di avere scarsa autonomia e che non si sentono sufficientemente tutelati, nonché le molte azioni legali intentate per ottenere riconosciuto lo status di lavoratori subordinati (si vedano gli interventi di Pietro Ichino su questo sito, 1 e 2) pongono importanti questioni su come deve essere trattata contrattualmente questa tipologia di lavoro. Anche se il dibattito politico in Italia è concentrato sui “riders”, l’indagine Debenedetti mostra che nel nostro paese rappresentano solo il 12 per cento dei lavoratori impiegati nella gig economy. Il 70 per cento, dichiarando di fornire esclusivamente la propria forza lavoro, è probabilmente impiegato nel cosiddetto crowdworking che presenta caratteristiche particolarmente complesse e di cui è necessario tener conto.

Regolamentare questa forma di lavoro non è importante solo per tutelare i lavoratori, ma anche per rendere il modello meno rischioso per le imprese. Fortune ha stimato che se Uber fosse costretta a riconoscere i driver come lavoratori dipendenti, i suoi costi crescerebbero di 4,1 miliardi di dollari l’anno. Inoltre, poiché la gig economy rappresenta una estremizzazione dell’evoluzione che potrebbe interessare il mercato del lavoro, prestarvi la dovuta attenzione è necessario per non trovarsi impreparati ad affrontare le importanti questioni che continuerà a porre e a cui difficilmente si potrà rispondere solo cercando di opporre resistenza.

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Il Punto

  1. Michele

    Non ci vedo nulla di positivo nella Gig economy. In sostanza le piattaforme informatiche non hanno un ruolo molto diverso dal caporalato. Intermediano lavoro. Un tempo lavoratori come quelli impiegati nella GiG economy sarebbero stati definiti sotto occupati e andrebbero classificati come disoccupati (anche se lavorano 1 ora retribuita nella settimana di riferimento). Una regolamentazione è indispensabile e deve introdurre forti elementi di tutela dei lavoratori e disincentivi per le imprese. Se questo vorrà dire che certe imprese chiudono in Italia, ce ne faremo una ragione. Occorre invertire la rotta rispetto alla ideologia che “meglio un lavoro disgraziato piuttosto che niente”. Altrimenti non ci sarà limite verso il basso.

  2. Paolo

    Ma se gli unici ad essere soddisfatti sono quelli che lo fanno per arrotondare non sarebbe più semplice applicare alle piattaforme on line i limiti d’uso dei voucher. Della serie, ogni rider può incassare massimo 7000 euro annui, vietato lavorare più di 18 ore settimanali o comunque in caso di supero e assenza di altra copertura previdenziale obbligo per la piattaforma di garantire indennità di messa a disposizioni fino al minimo tabellare dipendente.Poi magari anche un limite massimo tra il numero dei riders e il numero dei dipendenti per bloccare gli abusi. In fondo il 20% dei riders fanno quello perchè non trovano altro mi pare corretto costringere le piattaforme che li controllano ad assumerli in pianta stabile o magari a passare al rapporto di lavoro a tempo determinato.

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