Tra i tanti problemi che nascerebbero dall’uscita dell’Italia dall’euro, si dovrebbe tener conto anche degli eventuali risarcimenti dovuti per inadempimento di talune clausole contrattuali che da tempo i creditori “impongono” agli stati debitori.
Nessuna eccezione per il debitore-stato
Nel 1913, il governo serbo decise di emettere i propri bond esteri nei cosiddetti gold francs: moneta fittizia per la quale ogni franco nominale veniva ancorato a un prestabilito ammontare in oro.
Nel 1924, dopo anni di pagamenti avvenuti comunque in franchi ordinari, i creditori (in buona parte francesi) decisero – contro la volontà della Serbia – di chiedere il pagamento in gold francs. Per dirimere il conflitto, i governi francese e serbo si rivolsero alla Corte permanente di giustizia internazionale: la decisione fu favorevole ai creditori, nella considerazione che gli accordi di prestito tra lo stato e i suoi creditori non possano godere di alcun regime speciale che tenga conto della peculiare natura del debitore-stato, e quindi la clausola-gold francs andava integralmente rispettata.
Eurexit alle prese con diritto civile e prassi contrattuale
Se oggi l’Italia decidesse un’uscita unilaterale dall’euro, non si può escludere che la successiva conversione monetaria possa dar luogo a contenziosi anche con i possessori italiani di titoli del debito pubblico. Comunemente però si ritiene che per fattispecie esclusivamente “domestiche” la cosiddetta lex monetae non permetterebbe molti spazi di contestazione.
Quanto ai bond detenuti da creditori stranieri, questi non sono emessi solo in euro e non sempre hanno come giurisdizione e diritto applicabile quello italiano: per esempio, non è così con il programma Global Bond, mentre un’emissione con valuta (anche) in euro e giurisdizione e diritto italiani si ritrova nei programmi di prestito di medio-termine (Mtn).
A partire dal 1° gennaio 2013, all’interno dei bond sono comparse le cosiddette clausole di azione collettiva (Cac), che, come è stato già efficacemente spiegato, rappresentano di per sé un limite per ogni conversione non concordata con i creditori.
Ma prendiamo in considerazione l’ipotesi in cui si decida di procedere senza consenso dei creditori, come si immagina in taluni scenari di Eurexit “repentina”.
Secondo alcune proposte, quando si tratta di titoli del debito pubblico italiano detenuti da soggetti stranieri e sottoposti alla normativa italiana (i programmi Mtn), si potrebbe lavorare sul diritto civile interno per ridurre gli oneri da conversione. Il ragionamento si può così riassumere. Dopo l’uscita della sola Italia, i titoli in euro sarebbero denominati in una moneta senza più corso legale nell’ordinamento italiano. Dunque, si applicherebbe l’articolo 1278 del codice civile: “Se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza”. Il che vorrebbe dire – escludendo che si decida di acquistare euro (operazione che rappresenterebbe un nonsense) – pagare con la nuova “lira” al suo tasso di cambio del giorno di esigibilità del credito, e dunque piuttosto svalutata e non di certo nel rapporto 1 a 1 verosimilmente imposto con i provvedimenti di uscita.
E quindi quale sarebbe la soluzione? Da parte Eurexit si suggerisce di impiegare l’articolo 1281 comma 1 cc: “Le norme che precedono [compreso l’art. 1278] si osservano in quanto non siano in contrasto con i principi derivanti da leggi speciali”. Pertanto, basterebbe una singola disposizione legislativa di deroga per tentare di risolvere la questione del cambio svantaggioso.
Tutto bene? Non proprio. Le controparti straniere dello stato, per lasciarsi convincere alla sottoscrizione, richiedono da tempo clausole contrattuali di tutela contro conversioni forzose. E, infatti, se si legge il prospetto dei titoli Mtn (currency indemnity, p. 39, n. 16), compare l’impegno dell’Italia a indennizzare ogni perdita subita a causa dell’eventuale sostituzione della valuta (originaria) euro.
La conseguenza è presto detta: se lo stato non provvede all’indennizzo spontaneo, i creditori potrebbero citare in giudizio lo stato inadempiente, lamentando la violazione della clausola e chiedendo il correlato risarcimento (articolo 1218 cc). Il tutto utilizzando gli stessi tribunali italiani, ai quali non rimarrebbe che accertare, nello stesso tempo, l’esistenza della deroga al rapporto di conversione e la violazione dell’obbligo d’indennità. In conclusione, nella migliore delle ipotesi, si verificherebbe un annullamento del “lucro” da svalutazione, cui però vanno aggiunte le eventuali condanne alle spese processuali.
Il fatto che lo stato sia esposto alle dinamiche privatistiche può non piacere, e non è escluso che abbia anch’esso pregiudicato l’idea stessa di sovranità, ma da qualche tempo è così e sarebbe bene non dimenticarlo.
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