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Euro e bilancio Ue: qui si gioca il futuro dell’Unione*

Continuano in Europa le trattative su bilancio europeo e stabilizzazione dell’Eurozona. Se sul primo tema un compromesso è possibile, più difficile un accordo sul secondo. Per l’Italia potrebbe non essere un male, anche se i rischi non mancano.

Bilancio europeo dopo Brexit

Due importanti tavoli di trattativa sono aperti in Europa. Riguardano temi diversi, ma con gli stessi protagonisti in gioco e dunque con possibili interazioni tra di loro.
Il primo concerne le prospettive finanziarie per il periodo 2021-2027. Definiscono la dimensione del bilancio europeo ma anche, per le peculiarità con cui funziona, i principali comparti di spesa per gli anni successivi. Si tratta di un appuntamento rituale, questa volta però particolarmente importante, perché scandito da diverse novità.
La prima è la Brexit, la fuoriuscita dall’Unione della seconda economia europea. Il mancato contributo inglese implicherà una riduzione del bilancio europeo di quasi il 10 per cento del totale, circa 12-13 miliardi di euro all’anno in meno. I paesi rimanenti devono dunque decidere se e in che misura compensarli con ulteriori risorse.
La seconda è rappresentata dalla percezione sempre più diffusa in alcuni paesi e tra i cittadini europei (si vedano per esempio i sondaggi di Eurobarometro) che le politiche tradizionali su cui finora si è concentrata la spesa europea, e cioè agricoltura e politiche di coesione (per oltre il 75 per cento del bilancio), riguardino il passato più che il futuro. Un maggior impegno finanziario è invece necessario sui cosiddetti “beni pubblici” europei: difesa, sicurezza, protezione delle frontiere, investimenti ambientali e agenda digitale. In realtà, pressata dall’emergenza, qualcosa l’Unione è già riuscita a fare su questi fronti nonostante le rigidità del bilancio europeo, per esempio con la nuova Guardia costiera europea e con il Fondo europeo per la difesa, ma è ovvio che è necessario un esborso molto maggiore su queste politiche per renderle efficaci.
La Commissione presenterà proposte concrete solo a partire da maggio 2018. Tuttavia, esistono molti lavori preparatori e i vari paesi si stanno già schierando sulle possibili alternative. Il presidente francese, in un ormai famoso discorso alla Sorbona a settembre 2017 e più di recente in un intervento al Parlamento europeo, ha sostenuto con forza la necessità di spostare la spesa sui beni pubblici europei. Su questi temi c’è in linea di massima l’accordo anche del nuovo governo tedesco, sensibile in particolare al controllo delle frontiere. Scettici e contrari i paesi nordici, compresi i baltici, preoccupati di dover tirare fuori più soldi e soprattutto i paesi dell’Europa dell’Est, grandi beneficiari delle politiche di coesione e del tutto contrari a una politica europea comune sull’immigrazione.
Al tema della spesa, si accompagna quello del finanziamento. Qui sono possibili riforme importanti, già prefigurate dal Rapporto Monti del 2017. Con la Brexit salterà infatti anche la “correzione” inglese, imposta da Margaret Thatcher negli anni Ottanta, un meccanismo complesso utilizzato per ridurre il contributo del Regno Unito, che ha avuto l’effetto non secondario di rendere del tutto incomprensibile il sistema di finanziamento dell’Unione, particolarmente per quello che riguarda la risorsa Iva. Probabilmente, assieme a quella inglese salteranno anche le numerose piccole “correzioni” che i vari paesi sono riusciti a contrattare nel corso degli anni. Ciò può aprire lo spazio a un meccanismo di finanziamento più trasparente e più concentrato sulle “risorse proprie” dell’Unione. Una buona notizia, perché potrebbe limitare il meccanismo del “giusto ritorno”, che spinge i paesi a riportare al proprio interno le risorse attribuite al bilancio europeo, a costo di finanziarne alcune che con le politiche europee non c’entrano nulla. Si parla in particolare di una “carbon tax”, di una base imponibile comune per le imprese europee e di una forma di “web tax” per ridurre l’evasione fiscale delle imprese digitali.
Difficile naturalmente prevedere come andrà a finire. Ma nonostante l’ondata di veti che si è già alzata, c’è qualche ragione di ottimismo. In parte per il forte investimento di capitale politico che i principali paesi europei, a cominciare dalla Francia, hanno fatto sul tema. In parte per il conflitto, sempre più esteso, tra questi e il cosiddetto gruppo di Visegrad. Per esempio, la Polonia è attualmente sotto accusa per violazione dello stato di diritto, un processo che potrebbe condurre alla perdita dei diritti di voto nel Consiglio europeo. Vista però la difficoltà di raggiungere questo obiettivo, si affaccia l’idea di usare invece la politica di coesione e i fondi strutturali come meccanismo di pressione sulle democrazie illiberali dell’Est. È dunque prefigurabile un compromesso finale su un bilancio un po’ più ampio di quello attuale (un 1 per cento più qualcosa del Pil dei paesi rimanenti) e con una riduzione del ruolo delle politiche tradizionali a vantaggio dei “beni pubblici” europei. Per l’Italia, in particolare, sarebbe molto importante riuscire a spuntare un impegno serio a superare il Trattato di Dublino e a vedere aumentato il finanziamento europeo sulle politiche di controllo delle frontiere.

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La stabilizzazione dell’Eurozona

Il secondo tavolo aperto riguarda le politiche per la stabilizzazione dell’Eurozona. Anche qui la Francia (ma pure l’Italia con il precedente governo) si è molto spesa con proposte innovative (un bilancio per l’euro o almeno una capacità fiscale condivisa per l’eurozona, un ministro delle finanze europeo) e a giugno è previsto un Consiglio europeo che avrebbe dovuto condurre alla assunzione di proposte operative, o perlomeno nell’identificazione di una road map precisa. I temi riguardano un insieme di interventi che vanno complessivamente sotto l’etichetta di politiche per la riduzione e assicurazione del rischio. Sarebbe importante sfruttare il momento di relativa calma sui mercati e di crescita economica per stabilizzare l’euro; naturalmente, un accordo su questo tavolo renderebbe più facile anche l’accordo sul bilancio e viceversa.
Il compromesso qui però sembra molto difficile. I paesi del Centro-Nord, a cominciare dalla Germania, sono terrorizzati che politiche di mutualizzazione del rischio possano condurre a una “transfer union” a favore dei paesi meridionali e chiedono in cambio vincoli sempre più pressanti sul sistema bancario e sulle finanze pubbliche. Una proposta condivisa franco-tedesca sulla riforma dell’Eurozona, più volte annunciata, è stata rimandata, anche a causa della fronda interna al proprio partito che la cancelliera tedesca deve affrontare. È molto probabile che l’agenda finale venga ridimensionata e che il Consiglio di giugno si limiti ad adottare una proposta, lungamente attesa, sulla possibilità per l’Esm (il meccanismo di stabilizzazione europeo) di offrire un fiscal backstop al fondo di risoluzione bancario, rimandando al futuro tutto il resto. Poiché nel 2019 ci saranno le elezioni europee, ogni possibilità di progresso ulteriore sarà a questo punto rimandata al 2020, dopo l’elezione della nuova Commissione, del presidente dell’Unione e del presidente della Banca centrale europea.
Non è detto che sia necessariamente un male per l’Italia, comunque. Vista la particolare debolezza politica del nostro paese, considerati anche i risultati delle recenti elezioni politiche, un compromesso sull’area dell’euro potrebbe finire con l’essere eccessivamente penalizzante per noi. Per esempio, potrebbe comportare forme di ristrutturazione semi-automatica del debito in caso di ricorso all’Esm o spostare a questo organismo la sorveglianza fiscale.
Naturalmente, c’è anche il rischio opposto: senza progressi seri sulle politiche di stabilizzazione dell’area, una prossima crisi finanziaria potrebbe far saltare in aria l’Eurozona e con essa l’Unione europea. Se il rischio si materializzerà dipenderà anche dai comportamenti dei singoli paesi, in particolare dell’Italia, che per la sua bassa crescita e ampio debito pubblico rappresenta l’anello debole del sistema. La situazione del paese è migliore rispetto al 2011, per una serie di ragioni (avanzo di parte corrente, allungamento delle scadenze del debito), e ciò rende il rischio meno probabile, ma comportamenti finanziari irresponsabili da parte del nuovo governo potrebbero rapidamente pregiudicarla.

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* Massimo Bordignon è membro dell’European Fiscal Board. Le opinioni espresse nell’articolo sono personali e non impegnano in alcun modo l’istituzione di appartenenza.

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  1. Henri Schmit

    L’articolo descrive bene la situazione attuale, una fase di ridefinizione o di ricalibro delle politiche europee, sotto il profilo delle spese e delle risorse. La nuove politiche menzionate non sono finora comuni ma di natura cooperativa. Il volano che dovrebbe interessare l’Italia è ovviamente una politica comune dell’immigrazione. Il contesto è più maturo che mai prima, ma manca una strategia, una proposta, manca l interlocutore italiano. Il secondo blocco è più incerto. Il presidente francese sta gradualmente ridimensionando le sue idee iniziali. L’ora è quella del realismo. Inutile parlare di un ministro europeo delle finanze senza precisare i suoi compiti e quindi i poteri dell’UE di fronte ai singoli paesi; è ovvio che ci potrebbero solo essere maggiori costrizioni per le politiche fiscali nazionali. Quindi l’unica cosa da fare a livello nazionale è di proseguire con gli sforzi di convergenza. Per l’Italia questa significa sempre la stessa cosa: pareggio di bilancio, controllo della spesa, miglioramento della fiscalità, della competitività, della produttività, e riduzione del debito. Senza questo non ci può essere alcun progresso verso una maggiore integrazione europea. Serve più Italia.

  2. Lorenzo

    La mia impressione è che l’Europa che abbiamo conosciuto e partecipato fino ad oggi sparirà.
    Non perché sparirà l’idea d’Europa, ma perché alcuni paesi, tra cui l’Italia, non riconoscendosi più in essa, finiranno ai margini. Ai margini degli interventi, ai margini delle presenze, ai margini delle attività di lobbying. Si vede già sulla questione dazi americani. L’assenza dell’Italia, una volta impensabile e che avrebbe creato un vuoto assordante, è praticamente ignorata. Un quarto di secolo dominato sulla scena dall’uomo di Arcore ci ha ridotto a questo: ininfluenti.

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