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Alla fine della vita

Qual è la situazione nell’assistenza ai malati terminali in Italia? Solo dal 2010 le cure palliative hanno avuto un forte impulso, ma restano ancora molte differenze tra le regioni. Per i nostri lettori un estratto dell’ultimo libro di Marzio Barbagli.

Cure palliative in Italia

Nel 1994, la Regione Emilia Romagna emanò delle norme per l’assistenza domiciliare dei malati terminali. A livello nazionale, si occupò di queste cure il Piano sanitario del 1999-2000. All’interno di questo piano, una legge e un decreto del presidente del Consiglio dei ministri stanziarono 300 milioni per l’assistenza di pazienti “affetti da malattie progressive ed in fase avanzata, a rapida evoluzione e a prognosi infausta, per i quali ogni terapia finalizzata alla guarigione o alla stabilizzazione della patologia non è possibile o appropriata”, “prioritariamente” per quelli oncologici. Il progetto prevedeva la realizzazione di 201 hospice (con oltre 2000 posti letto). Questo intervento, e il finanziamento previsto, costituirono un forte incentivo per l’affermazione delle cure palliative nel nostro paese. Ma gli obiettivi programmati per il primo decennio non furono raggiunti. Gli hospice, che nel 2003 erano solo 20, divennero 105 nel 2006 e 117 nel 2010. Erano stati istituiti quasi solo nelle regioni centro settentrionali e per pazienti oncologici. Il risultato fu giudicato “deludente, considerando l’intervallo di tempo trascorso dall’emanazione della legge” e si rese necessario un secondo intervento pubblico. Il 22 maggio 2008, un gruppo di deputati presentò una proposta di legge per “garantire l’accesso alle terapie del dolore alle cure palliative” (approvato due anni dopo). Veniva prevista la creazione di due reti, una per le cure palliative, l’altra per la terapia del dolore, che dovevano essere coordinate per migliorare la qualità della vita dei pazienti. Ma la popolazione alla quale si riferivano non era la stessa. La prima era pensata per i malati terminali e per le loro famiglie, la seconda mirava invece a lenire le sofferenze dovute a forme morbose croniche non necessariamente terminali. Riguardo alla prima, la proposta di legge sottolineava l’esigenza che le cure fossero rivolte non solo ai malati terminali di cancro, ma anche a quelli affetti da patologie cronico degenerative con andamento progressivo, in fase avanzata riguardo al sistema respiratorio, cardio-circolatorio, neurologico ed epatico. Le cure palliative dovevano essere erogate principalmente in un hospice o nel proprio domicilio. Secondo i piani sanitari nazionali e regionali, l’hospice doveva accogliere il 25 per cento della popolazione assistibile, la cura a domicilio doveva essere rivolta al 75 per cento.
Il secondo intervento pubblico, con la legge del 15 marzo 2010, ha dato un forte impulso allo sviluppo di queste cure. Nel 2014 il numero degli hospice è salito a 231. I deceduti in queste strutture sono cresciuti da 19.376 nel 2011 a 34.029 nel 2014, con un aumento del 76 per cento. Nel 2014, le persone che hanno ricevuto cure palliative domiciliari sono state 52.014. Si può stimare che in Italia, nel 2014, abbia ricevuto cure palliative (domiciliari o in hospice) circa il 13,8 per cento dei deceduti, una quota simile a quella della Germania (12 per cento), ma inferiore a quella del Canada (dal 16 al 30 per cento), dell’Inghilterra (23 per cento) e degli Stati Uniti (41 per cento). Sia in hospice che a domicilio, queste cure continuano ad essere rivolte quasi esclusivamente (nell’85 per cento dei casi) ai pazienti oncologici. Ben poco è cambiato, sotto questo aspetto, negli ultimi anni. Questo avviene del resto anche in altri paesi occidentali. Nel Regno Unito ancora l’80 per cento dei pazienti delle cure palliative sono malati di cancro, in Canada e in Germania il 90 per cento. La situazione è mutata radicalmente solo negli Stati Uniti, dove, nel 1970, la grande maggioranza dei pazienti delle cure palliative risultavano malati di cancro. Oggi invece essi sono solo un terzo, mentre gli altri due terzi soffrono di qualche forma di cardiopatia o di demenza.
In Italia, due terzi dei pazienti entrati negli hospice provengono dagli ospedali, un terzo dalla propria abitazione, dove talvolta hanno già ricevuto cure palliative. Essi hanno un livello di istruzione e uno stato civile simile agli altri, a quelli cioè che esalano l’ultimo respiro altrove. Sono invece meno anziani, perché la probabilità che un paziente entri in un hospice diminuisce leggermente con l’età. Sono più frequentemente uomini che donne. Muoiono inoltre più spesso in questa struttura gli immigrati che gli autoctoni. I romeni, gli albanesi, i marocchini e i cinesi finiscono i loro giorni in un hospice più degli italiani, talvolta molto di più. Fra gli immigrati, questo avviene più spesso per le donne che per gli uomini, mentre fra gli autoctoni accade esattamente l’opposto.

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Forti differenze geografiche

Ma le differenze più forti sono quelle geografiche. Le cure palliative si sono sviluppate finora molto più nelle regioni centro settentrionali che nelle altre. Nelle prime, nel 2014, la quota dei pazienti oncologici che passa gli ultimi giorni in un hospice era due volte e mezzo più alta (20,4 contro 7,7 per cento). La distanza fra quelle alla testa e quelle in coda al cambiamento è ancora maggiore. In Lombardia e in Emilia Romagna, questa quota arriva al 26 per cento, in Sicilia scende al 6,3 per cento, in Calabria al 4,7 per cento, in Campania al 3 per cento. Ma anche all’interno delle regioni vi sono delle disparità. Così, ad esempio, in Sardegna la quota dei malati di cancro che muore in un hospice è piuttosto bassa (9,4 per cento), ma a Nuoro è alta (43 per cento).
Anche se solo riguardo ai pazienti oncologici, nella popolazione di alcune città settentrionali le cure palliative hanno fatto negli ultimi anni grandi passi avanti. A Cremona, la quota di questi pazienti che finiscono la loro vita in un hospice è il 53 per cento, a Forlì il 43 per cento, a Brescia il 38 per cento. Se disponessimo dei dati di quelli che ne hanno usufruito a domicilio, vedremmo che questi valori sarebbero molto più alti. In Emilia Romagna, ad esempio, nel 2015, si è superato il 62 per cento.

Marzio Barbagli, Alla fine della vita, Il Mulino, 2018, pag. 351, 20 euro.

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  1. Porto solo la mia esperienza diretta. Mia moglie (48 anni) è morta un mese fa per una recidiva oncologica. Se non avessimo avuto il supporto di un’associazione di terapie palliative e il relativo hospice questi ultimi 6 mesi di infinita sofferenza sarebbero stati ancor peggiori. Un servizio da tutelare e ampliare quanto più possibile. Essere curati, o accuditi in questo caso, nella propria abitazione rende il percorso verso la fine più umano. Grazie davvero a chi opera nel settore.

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