Il Professor Francesco Daveri contesta al Ministro Padoan l’affermazione ribadita nella lettera inviata recentemente alla Commissione europea: “Il rapporto debito/Pil si è di fatto stabilizzato grazie a un prolungato sforzo di bilancio che non ha virtualmente confronti nell’Eurozona dall’inizio della crisi economica”.
A difesa della critica lui adduce il fatto che la riduzione del rapporto deficit/Pil e il miglioramento del rapporto surplus primario/Pil realizzati dall’Italia sono inferiori alla media europea.
Chiunque abbia passato la prova di matematica della terza media sa che il prodotto di una divisione dipende da due fattori: il nominatore e il denominatore. In questo caso il denominatore è il Pil. Un governo può e deve mettere in campo politiche economiche che promuovono la crescita del Pil, ma questa dipende da molti fattori e solo parzialmente dalle scelte del governo in senso lato, e ancor più parzialmente se ci si limita alle politiche di bilancio. Quindi, quando si parla di “sforzo di bilancio”, ci si riferisce al nominatore. Esso è, se ci focalizziamo sul surplus primario, la differenza tra entrate e uscite. Anche qua c’è un distinguo da fare. Le entrate dipendono sì dalle politiche fiscali del governo, ma anche dalla crescita nominale che per i motivi sopracitati è solo parzialmente il risultato diretto dell’azione del governo. Le spese invece sono interamente nelle mani del governo. Infatti, lo stesso Daveri ricorda che “i burocrati di Bruxelles…spingono a chiedere un adeguato miglioramento della spesa primaria”.
Se per “sforzo prolungato di bilancio” intendiamo il contenimento della spesa, e limitandomi all’operato dei governi nei quali Pier Carlo Padoan ha ricoperto il ruolo di Ministro dell’Economia, i risultati sono chiari:
- In termini di spesa corrente complessiva al netto degli interessi, l’Italia è stata il terzo paese più virtuoso non solo nella zona Euro, ma tra tutti i paesi Ocse, dietro la Grecia e il Portogallo;
- In termini di spesa per i servizi pubblici (i cosiddetti “consumi finali della pubblica amministrazione”) l’Italia è stata il secondo paese più virtuoso tra i paesi Ocse, dietro alla Grecia, con un livello di spesa nominale sostanzialmente invariato.
Va ricordato che sia la Grecia che il Portogallo, entrambi beneficiari di massicci aiuti esteri, hanno tagliato in modo consistente i servizi pubblici, mentre noi invece li abbiamo ampliati.
A seguito di questo lavoro, che ha comportato la riduzione di capitoli di spesa pari a 29,9 miliardi nel 2017 e molteplici riforme dei processi e dell’organizzazione delle diverse amministrazioni pubbliche, il livello di spesa per i servizi pubblici del nostro paese risulta il più basso tra i grandi paesi europei, al pari della Spagna e al di sotto del Regno Unito, della Germania e della Francia. Non a caso stiamo ricevendo da diversi governi richieste d’aiuto su questo tema.
Alla luce di questi fatti trovo la frase “l’Italia furbetta che vende più di quel che ha conseguito” offensiva nei confronti delle centinaia di persone della pubblica amministrazione impegnate con passione e professionalità a raggiungere risultati importanti. La furbizia, semmai, sta nel presentare un numero per quel che non è al fine di sostenere una tesi.
Si potrebbe obiettare che tutto questo è insufficiente e che servirebbe un taglio più forte della spesa complessiva. È una posizione legittima, ma naturalmente per valutarla come una proposta concreta e non come un’espressione di una posizione ideologica servirebbe anche indicare come metterla in atto.
Diciamo subito che, se l’unico obiettivo fosse stato la riduzione dell’ammontare della spesa pubblica, sarebbe stato facile realizzarlo decidendo quante nuove pensioni non pagare, quanto tagliare quelle in essere, quanto far pagare chi si cura in ospedale o manda un figlio alla scuola, e il compito sarebbe stato presto concluso. Leggiamo di proposte mirabolanti per ridurre la spesa pubblica complessiva di 4 punti di Pil, cancellando per esempio le pensioni di invalidità. Se queste fossero le “regole d’ingaggio”, verrebbe da pensare che la proposta sia troppo timida. Perché 4 e non 14 o 24? A ogni obiettivo di riduzione corrisponde un livello di macelleria sociale che consente di raggiungerlo. Non è questo il luogo per dibattere di vantaggi e svantaggi dello stato sociale, ma è utile sottolineare che il modello di stato che governa, finanzia e regola la sanità, la scuola e l’assistenza sociale non solo garantisce maggior equità, ma tendenzialmente anche costi più bassi rispetto al libero mercato. Basti ricordare che un giorno in ospedale da noi costa tra i 700 e i 1000 euro, mentre negli Usa costa tra i 3500 e i 5000 dollari.
Se si vuole garantire lo stato sociale, la riduzione della spesa complessiva si scontra con l’invecchiamento della popolazione che produce un continuo e inesorabile aumento della spesa socio-sanitaria e previdenziale in tutti i paesi. Per questo motivo, anche paesi alle prese con una crescita vertiginosa del debito e deficit altissimi, come Spagna e Francia, e paesi che hanno ricevuto ingenti aiuti economici e si sono dovuti sottoporre a pesanti programmi di austerity, come l’Irlanda, non sono riusciti negli ultimi 4 anni a contenere l’aumento della spesa corrente.
Avremmo potuto ottenere un saldo nettamente migliore? Chi pensa questo dovrebbe indicare quali tra le spese nuove non avrebbe sostenuto e quali tra le spese esistenti avrebbe tagliato. Oltre il 90 per cento delle spese aggiuntive è servito per garantire i servizi essenziali: nuove pensioni, sanità, scuola e sicurezza, oltre alle spese obbligatorie per l’accoglimento dei migranti. La maggior parte del lavoro di revisione della spesa è proprio orientato a rendere questi servizi più efficienti. L’aggregazione degli acquisti con risparmi effettivi di diversi miliardi, i piani di rientro degli ospedali con performance cliniche ed economiche insoddisfacenti, la riorganizzazione dei presidi delle forze dell’ordine sono solo alcuni esempi. Grazie a questi interventi e all’eliminazione di altre spese superflue è stato possibile mantenere la spesa corrente sostanzialmente invariata e allo stesso tempo garantirne la qualità ampliandola dove necessaria, per esempio con l’introduzione di nuovi farmaci salva vita. Naturalmente c’è ancora molto da fare nei filoni di lavoro già lanciati che potranno dare risultati crescenti nel tempo, ma nessun altro paese è riuscito a fare tanto quanto ha fatto l’Italia negli ultimi anni.
Esistono significativi bacini di spesa sui quali si sarebbe potuto incidere maggiormente fuori dal perimetro dei servizi essenziali? Due aree vengono spesso segnalate: le spese fiscali e le partecipate. Sulla prima è senz’altro possibile intervenire. Tuttavia è meno semplice di quanto si pensi. Quasi tutte queste agevolazioni hanno una motivazione non campata per aria. Gli incentivi alle ristrutturazioni e al risparmio energetico hanno dato un sollievo al settore delle costruzioni, che ha perso diverse centinaia di migliaia di occupati soprattutto dopo il forte aumento della tassazione immobiliare avvenuto nel 2012. La riduzione delle accise agli autotrasportatori è servita come una parziale compensazione al forte aumento generale, effettuato sempre nel 2011/12, che ha penalizzato gli autotrasportatori italiani e tutte le industrie italiane che utilizzano trasporti su gomma. E così via. Anche intervenire sulle deduzioni e detrazioni Irpef delle quali godono le persone fisiche è teoricamente possibile, ma bisognerebbe ricordare che per realizzare risparmi non simbolici non basta toccare solo i redditi alti ma servirebbe agire anche su redditi medi. È altrettanto importante ricordare che, in un paese dove molti ricchi si professano (nelle loro dichiarazioni dei redditi) poveri, questa misura porrebbe serie questioni di equità e, ahimè, darebbe un’ulteriore incentivo all’evasione fiscale.
Di tutte queste agevolazioni si potrebbe discuterne entità e modalità ed è ragionevole apportare delle modifiche. Occorre tuttavia sottolineare due importanti caveat. È difficile ipotizzare che le risorse aggiuntive recuperate possano essere più di una piccola percentuale rispetto ai quasi 30 miliardi complessivamente risparmiati ad oggi. Inoltre, indipendentemente dall’entità dei risparmi, tutti questi potenziali interventi non hanno nulla a che fare con la riduzione della spesa o la riduzione della pressione fiscale. Si tratterebbe di una riforma fiscale e non di “uno sforzo di bilancio”.
Per quanto riguarda le partecipate, la questione fondamentale è la competizione nei servizi pubblici locali. Servirebbe più concorrenza per migliorarne la qualità e l’efficienza, ma, siccome questi servizi sono in gran parte finanziati dalle tariffe pagati dai cittadini, l’impatto dell’intervento sulla finanza pubblica sarebbe moto limitato. La riduzione del numero delle partecipate viceversa serve più per ridurre il “poltronificio“ che hanno fatto nascere piuttosto che per ottenere reali risparmi per la finanza pubblica, peraltro piuttosto marginali.
È legittimo sostenere che un malato grave di epatite C che non è in grado di sborsare 15 mila euro per un nuovo farmaco salva vita sia lasciato al suo destino. Avremmo risparmiato un miliardo, e cosi funziona la sanità americana, dove peraltro la libera iniziativa in un mercato non regolato porta a far costare lo stesso farmaco 80 mila dollari. È più discutibile invece far intendere che sia facile ridurre ulteriormente la spesa pubblica e che la colpa di non averlo fatto è della “Italia furbetta”, un’espressione stereotipale degna, si fa per dire, di una conversazione da salotto, ma che si addice meno a un articolo che ha le pretese di una oggettiva analisi scientifica.
Yoram Gutgeld, Deputato del Partito Democratico e dal marzo 2015 commissario alla revisione della spesa
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