Il ritorno dell’inflazione può essere una buona notizia perché aiuta a ridurre il rapporto debito-Pil. Ma non lo è per i lavoratori dipendenti, che potrebbero ridurre i consumi. Un effetto evitabile con la riforma dell’Irpef che il governo ha rinviato.
2017: si apre e si amplia la forbice prezzi-salari
Come si vede dai tanti allegati al Def 2017, il governo è ancora una volta intenzionato a rinviare la riforma dell’Irpef (riduzione aliquote più riduzione detrazioni) a un futuro che non arriva mai. Lo fa per necessità, perché la mancata – o almeno insufficiente – spending review non ha generato le risorse necessarie per evitare l’aumento dell’Iva già programmato per rispettare gli impegni presi con Bruxelles. E lo fa anche per scelta, perché l’esecutivo preferisce destinare le scarse risorse a disposizione a riduzioni selettive dei contributi sociali, non delle aliquote Irpef.
Eppure, con il passare dei mesi, il ritorno dell’inflazione e la sostanziale stagnazione dei salari aggiungono elementi che suggerirebbero di riconsiderare questa scelta. Mettiamo in fila i fatti, ritornando un po’ indietro nel tempo. Veniamo da un triennio (il 2013-2016) nel quale le retribuzioni contrattuali per dipendente sono salite sempre più dei prezzi, con un effetto cumulato che ha sfiorato i tre punti percentuali. Il recupero del potere d’acquisto dei salari dopo la fiammata inflazionistica del 2011-12 ha addolcito l’impatto della lunga recessione successiva alla crisi dell’euro e aiutato la ripresa dei consumi del 2015-16.
Con il 2017 (con il mese di dicembre 2016, per la precisione) la forbice prezzi-salari ha cambiato di segno rispetto agli anni precedenti. Nel primo trimestre 2017 l’inflazione ha battuto le retribuzioni contrattuali per più di un punto percentuale. Una rilevante inversione di tendenza.
Figura 1
Fonte: Istat
Un’altra ragione per la riforma dell’Irpef
I dati suggeriscono anche che un rapido rallentamento dell’inflazione verso lo zero nel 2017 è improbabile. Quella al consumo è infatti sospinta da prezzi alla produzione che, in calo da quattro anni consecutivi (-6,8 per cento rispetto ai livelli 2013), sono saliti del 3 per cento nel primo trimestre rispetto allo stesso periodo del 2016. Il +3 dei prodotti industriali, se confrontato con il +1,3 dei prezzi al consumo, dice che per ora i supermercati e le altre aziende della grande distribuzione hanno trasferito meno della metà degli aumenti dei prezzi industriali. Forse perché li ritengono temporanei (il prezzo del petrolio potrebbe scendere nei prossimi mesi). Ma anche perché la ripresa non è poi così solida se si considera che i consumi in volume – seppur in crescita dal 2014 – sono risaliti solo ai livelli del 2004.
Figura 2
Fonte: Istat
Sarebbe sbagliato mettere mano a una grande riforma fiscale (di quelle che si fanno una volta ogni quarto di secolo) come quella che dovrebbe ridurre le aliquote e semplificare il sistema delle detrazioni e deduzioni Irpef solo guardando ai dati della congiuntura. Ma anche la congiuntura ha un suo peso. Il ritorno dell’inflazione è visto con sollievo dalle aziende che possono trasferire sui consumatori eventuali inefficienze aziendali e aumenti di costo come quello dell’energia sperimentato negli ultimi mesi. E un po’ di inflazione è una buona notizia anche per il ministero dell’Economia perché aiuta a ridurre il rapporto debito-Pil, scalfito solo marginalmente dalla riduzione della spesa pubblica e da una crescita economica ancora anemica. Ma per i lavoratori che un posto di lavoro ce l’hanno, il ritorno di un’inflazione duratura e – peggio – in accelerazione potrebbe significare un rilevante disincentivo al consumo. E una riduzione del carico fiscale potrebbe compensare questi effetti negativi.
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