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Perché le donne guadagnano meno degli uomini

Il differenziale salariale di genere sembra un problema che non trova soluzioni efficaci. Anche le politiche delle imprese contribuiscono a crearlo. Così le donne scelgono spesso il proprio lavoro sulla base di considerazioni che riguardano il bilanciamento di impegni lavorativi e familiari.

Stesso lavoro, paga diversa

Nel marzo 1918, Millicent G. Fawcett pubblicava sulle pagine dell’Economic Journal un breve intervento dal titolo “Equal pay for equal work”. Vi si racconta, tra l’altro, la storia della famiglia Jones, in cui il marito, John, si occupa di realizzare divise militari per un’azienda di abbigliamento. Sfortunatamente, John ha una salute cagionevole che spesso costringe sua moglie, Jane, a lavorare al suo posto. Finché John resta in vita, il lavoro viene apprezzato dall’impresa di abbigliamento. Quando John muore, e l’azienda capisce che è sempre stata Jane a lavorare i tessuti, le offre di continuare a farlo, decurtando però il suo salario di un terzo rispetto a quello del marito.
Sono trascorsi cento anni dalla pubblicazione dell’articolo, ma il tema della disuguaglianza della remunerazione del lavoro di uomini e donne è tutt’altro che tramontato. E se chiari casi di discriminazione come nell’esempio di John e Jane sono oggi più rari, il divario salariale di genere permane.
Partendo dai dati dell’Inps* si può raccontare cosa è successo a oltre 4 milioni di lavoratori italiani tra il 1991 e il 2012.
La figura 1 mostra il differenziale salariale di genere lungo tutta la distribuzione dei salari nel 1991 e nel 2012. In entrambi gli anni è maggiore nella parte alta e nella parte bassa della distribuzione, rispetto alla media: lo sconto da applicare allo stipendio degli uomini per individuare quello delle donne è cioè maggiore quando guardiamo ai lavoratori con salari elevati (il cosiddetto “soffitto di cristallo”) o con salari bassi (il “pavimento vischioso”). Le due curve sono quasi sovrapponibili: il divario è diminuito sia pure di poco su quasi tutta la distribuzione e in maniera più accentuata solo sui redditi più elevati, a testimoniare un problema che persiste negli anni, senza che siano state trovate finora soluzioni efficaci.

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fig1

Quanto conta il comportamento delle aziende

Parte del divario è riconducibile al comportamento delle imprese. Le politiche salariali o di progressione di carriera adottate, l’organizzazione dei tempi di lavoro, la presenza o assenza di servizi complementari al lavoro stesso (nidi aziendali, per fare un esempio) possono contribuire alla disuguaglianza. E i dati Inps dicono che lo fanno mediamente per il 30 per cento del totale.
A loro volta, le differenze nelle remunerazioni aziendali sono riconducibili a due diversi meccanismi. Da un lato, le donne potrebbero concentrarsi in imprese che riconoscono salari inferiori a entrambi i generi: è il fenomeno del sorting. Dall’altro, pur lavorando nelle stesse imprese, le lavoratrici potrebbero avere un minor potere contrattuale rispetto agli uomini e non essere in grado di negoziare gli stessi salari. In questo caso, si parla di bargaining power e di come le donne siano meno abili a esercitarlo. Sulla base dei nostri dati, il fatto che le donne si concentrino in imprese che pagano mediamente di meno tutti i lavoratori spiega in media il 20 per cento del divario salariale di genere, mentre il fatto che non siano brave quanto gli uomini a contrattare la loro remunerazione spiega il rimanente 10 per cento.
Il contributo delle imprese al gap salariale non è però costante lungo la distribuzione dei salari. La figura 2 lo mostra, distinguendo anche tra sorting e bargaining. Il contributo delle imprese (linea blu) è particolarmente elevato nella parte medio-bassa della distribuzione. Il sorting, linea rossa, tende a essere il fenomeno predominante a ogni quantile, ad eccezione della parte alta, dove è invece il minor poter contrattuale delle lavoratrici (il bargaining, linea gialla) a determinare la differenza.

fig2

Per le posizioni dirigenziali e manageriali è quindi la minor capacità negoziale delle donne nei confronti del datore di lavoro a contribuire ai loro minori salari. Per tutte le altre occupazioni, la scelta dell’impresa in cui lavorare è determinante: le donne potrebbero optare per quelle che corrispondono salari inferiori perché in cambio ottengono benefici non monetari, come la flessibilità di orario o la vicinanza del luogo di lavoro alla propria abitazione. Sul fronte della flessibilità, i dati dell’Ocse mostrano come l’Italia sia ancora indietro: solo il 66 per cento dei nostri datori di lavoro fornisce un adeguato livello di flessibilità, di 2 punti percentuali al di sotto della media Ocse e di oltre 15 punti inferiore ai paesi scandinavi. Per quanto riguarda il welfare aziendale, secondo i dati Istat, il 31 per cento delle imprese del settore dei servizi garantisce l’offerta di asili nido, servizi sociali, di assistenza, ricreativi e di sostegno, ma nella manifatturiera o nel commercio le percentuali scendono rispettivamente al 18 e al 4 per cento.
È ancora troppo poco per incentivare le donne a scegliere il proprio lavoro al di là di considerazioni sul bilanciamento di impegni lavorativi e familiari e per garantire anche a loro una idonea corrispondenza (matching) tra competenze acquisite e tipo di lavoro scelto.

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* I risultati e le conclusioni raggiunte in questo articolo sono frutto del lavoro degli autori e non coinvolgono in alcun modo l’Istituto nazionale di previdenza sociale.

 

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  1. SB2017

    Gentili autori,
    grazie per l’interessante articolo. Ho letto ieri su Repubblica che e’ al vaglio una legge sul “permesso mestruale pagato”. Con tutto il rispetto per gli intenti del legislatore (anche considerando che la cosa e’ anche stata proposta all’estero), qual e’ la vostra opinione sugli effetti di queste politiche sui fattori che avete considerato? Personalmente trovo che questo tipo di iniziative ledano gravemente l’immagine delle donne lavoratrici e che contribuiscano a peggiorare il gap salariale.
    Grazie!

  2. Mauro

    L’articolo è estremamente interessante e struttura bene il problema tra comportamento delle aziende, sorting (legato strettamente alle scelte scolastiche e formative) e bargaining. Quello che non capisco è la numerica, dove il 30% è spiegabile con il comportamento delle aziende (politiche, organizzazione, etc) , il 20% con il sorting e il 10% con il bargaining. Cosa succede per i 40% non spiegato?

  3. Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio

    Grazie per i vostri commenti. Per quanto riguarda i fattori che spiegano il differenziale salariale di genere, possiamo ipotizzare che il salario di un lavoratore dipenda da tre fattori. Innanzitutto dalle caratteristiche del lavoratore stesso: il suo talento, il livello di istruzione, l’età, l’esperienza lavorativa. In secondo luogo, dalle politiche salariali e organizzative adottate dalle imprese; infine, vi è una parte residuale spesso utilizzata come misura della discriminazione. Il 30% spiegato dalle componenti relative alle imprese è la somma del 20% dovuto al sorting delle donne in imprese con determinate caratteristiche, e del 10% dovuto al minor bargaining power femminile. Il restante 70%, quindi, è dato da differenze nelle caratteristiche individuali, osservabili (es. numero di ore lavorate, qualifica, esperienza lavorativa) o non (es. produttività, talento) e da una parte residuale dovuta alla discriminazione dei datori di lavoro. La proposta di legge sul congedo per dismenorrea, su cui non abbiamo informazioni dettagliate, non rientra tra le misure organizzative a livello aziendale a cui stavamo pensando. Le policy su cui ci soffermeremmo sono quelle che possono equivalentemente andare a vantaggio del lavoratore e della lavoratrice. Se da un lato questo congedo potrebbe aiutare ad affrontare un problema legato alla salute della donna, è possibile che influenzi negativamente la domanda di lavoro femminile da parte delle imprese.

  4. Agli autori dell’articolo chiederei come si spiega la differenza di genere negli stipendi a fronte dei contratti collettivi di lavoro. Un’impiegata di banca, con la stessa anzianità di un suo collega, guadagna lo stesso importo e lo stesso succede ad un’operaia o ad una commessa. Probabilmente le differenze nascono dopo, nella possibilità di carriera e, da ex piccolo imprenditore, ho riscontrato nelle mie dipendenti, una notevole differenza di rendimento tra prima e dopo la nascita di un figlio. al di là dei periodi di assenza legati al parto ed all’allattamento. L’attenzione e la concentrazione diminuiscono vistosamente, aumentano le dimenticanze e gli errori e la qualità del lavoro ne risente parecchio. Se quindi il collega di pari anzianità e di pari capacità fa carriera più rapidamente, è evidente che dopo qualche anno avrà un reddito più elevato. Se però la collega è single o, anche se sposata, non ha figli, le differenze non ci sono e anzi spesso sono a favore della donna che si impegna sul lavoro più dell’uomo.

    • arthemis

      @ Marco:

      “Un’impiegata di banca, con la stessa anzianità di un suo collega, guadagna lo stesso importo e lo stesso succede ad un’operaia o ad una commessa. ”

      Quando si parla di gap salariale in ambito aziendale (non a livello nedui di ‘sistema paese’), si considerano persone con la stessa mansione: dai dati, risulta solitamente una differenza del 10-30% – e ci sono numerosi studi che cercano di capire il motivo, non ultimo il fatto che le donne (anche le single senza figli) non chiedono aumenti con la stessa frequenza dei colleghi uomini.
      La soluzione non potrebbe anche essere la condivisione degli impegni familiari con i mariti, anziché azzoppare le donne a prescindere? Dove è scritto che un bambino di 10 anni debba essere accompagnato alle visite solo dalla madre, per esempio? Perché un figlio maschio che non si occupa dei genitori ‘è ‘normale, cosa ci vuoi fare’, ma una figlia viene additata come ingrata?
      Ah, ma forse agli uomini non piace essere penalizzati sul lavoro, preferiscono mantenere il ruolo da ‘bread winner’… e a molte donne tutto sommato non dispiace mantenere il ruolo di ‘gate keeper’.

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