Non c’è alcuna ragione che impedisca alla Banca centrale europea e alle banche centrali nazionali di vendere l’oro che custodiscono nei loro forzieri, seguendo l’esempio di altri paesi. Il ricavato, però, va utilizzato per progetti di utilità sociale, non per finanziare spesa pubblica improduttiva.
Banche centrali come le Ondine del Reno
Nella sua rilettura della saga dei Nibelunghi, Richard Wagner immagina che l’oro dia un potere immenso a chi lo possiede, ma che sia anche fonte di odio e conflitti.
Oggi le banche centrali detengono circa un terzo dello stock mondiale di oro (escludendo quello in uso a fini di gioielleria): 33mila tonnellate, per un valore di oltre 1.500 miliardi di dollari Usa, circa il 2 per cento del Pil mondiale. Come le Ondine del Reno, lo custodiscono gelosamente, ma non ne ricavano alcun potere o utilità per fini istituzionali. E come nella saga di Wagner, ciò è fonte di diffidenza e incomprensioni da parte dei cittadini, poiché la mobilizzazione di tali risorse potrebbe generare enormi benefici per la collettività: per esempio, finanziamento di grandi opere e progetti infrastrutturali, sostegno alle aree geografiche più arretrate o in difficoltà, come le nostre zone terremotate.
Perciò, alcuni grandi paesi hanno venduto consistenti quantità di oro. Il Canada ha azzerato le proprie riserve auree (aveva oltre mille tonnellate di oro nel 1965), il Regno Unito le ha ridotte di oltre il 50 per cento, vendendo circa 400 tonnellate di oro e la Svizzera di quasi il 60 per cento, cedendo circa 1.500 tonnellate.
I paesi dell’area euro, invece, le hanno ridotte in misura marginale (di circa il 15 per cento, vendendo oltre 1.900 tonnellate di oro). Oggi la Banca centrale europea e le banche centrali nazionali detengono ancora circa 11mila tonnellate di oro, un terzo delle riserve mondiali, per un valore di 490 miliardi di dollari Usa, circa il 4 per cento del Pil dell’area euro.
Se l’oro non ha più nulla a che fare con la politica monetaria, perché non venderlo? Il ricavato verrebbe (quasi) interamente distribuito agli Stati europei sotto forma di profitti (l’oro è iscritto in bilancio a prezzi largamente inferiori a quelli correnti).
Nel dicembre 2004, ad esempio, il governo tedesco avrebbe informalmente sollecitato la Bundesbank a vendere parte dell’oro, ma la reazione “piccata” della banca centrale fu quella di comunicare al mercato di non voler effettuare vendite di oro.
I tre compiti della Bce
Vediamo cosa dice il Trattato europeo in proposito. Il sistema europeo delle banche centrali (Sebc) ha tre compiti (articolo 127, primo comma): 1) “definire e attuare la politica monetaria dell’Unione”; 2) “svolgere le operazioni sui cambi”; 3) “detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri” (ve ne è un quarto, “promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento”, che qui non rileva).
L’uso dell’oro per “attuare la politica monetaria” sembra impraticabile. Il metallo prezioso potrebbe essere venduto alle banche per attuare una politica monetaria restrittiva e assorbire base monetaria, ma gli istituti finirebbero per cederlo a loro volta a soggetti che lo usano a fini industriali o commerciali, piuttosto che mantenerlo al proprio attivo, con il risultato che non si avrebbe nessun impatto sui tassi d’interesse e sulla liquidità bancaria, ma solo sul prezzo e la quantità estratta di oro.
Anche l’uso dell’oro per “svolgere operazioni in cambi” (motivo per cui il Sebc ha il compito di detenere e gestire le “riserve ufficiali in valuta estera”) non sembra possibile. L’oro dovrebbe essere prima venduto per acquisire valuta estera che dovrebbe poi essere rimessa sul mercato dei cambi; in questa maniera la liquidità della valuta estera non cambierebbe e dunque non si avrebbero effetti sul cambio dell’euro nei confronti di tale valuta.
Per tale motivo il compito “detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera” non può implicare la detenzione delle riserve auree. Lo stesso tenore letterale della norma è inequivocabile, perché l’oro non è una “valuta estera”. Interpretazioni estensive sarebbero contrarie ai principi fondamentali del diritto.
Tuttavia, accettare sollecitazioni a vendere le riserve auree potrebbe apparire come una “forma di facilitazione creditizia” a soggetti pubblici, vietata dal Trattato (articolo 123). Ciò sembra da escludere se si condivide quanto prima detto. Se un soggetto pubblico (quale è una banca centrale) detiene asset non più funzionali ai propri compiti istituzionali ha il dovere di rimetterli a disposizione dello Stato.
Si potrebbe argomentare che l’oro serve a garantire l’autonomia finanziaria, e quindi l’indipendenza, delle banche centrali in caso di ricavi insufficienti a coprire le spese di funzionamento. Ma vendere l’oro per coprire le spese di funzionamento delle banche centrali non sembra corretto. Dovrebbero finanziarsi solo con i ricavi derivanti dagli asset detenuti per finalità istituzionali; è dovere dello Stato ricapitalizzarle in caso di insufficienza di tali fonti.
Le banche centrali non devono sentirsi le Ondine del Reno. Ma i governi non devono essere avidi, come il nibelungo Alberich. L’oro deve essere utilizzato per progetti di grande utilità sociale e non per finanziare spesa pubblica improduttiva.
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