Dopo Il ritorno dell’economia della depressione di Paul Krugman, il Giappone è diventato un caso da manuale di un paese soffocato dal troppo debito e dalla deflazione dopo lo scoppio di una bolla immobiliare. L’idea prevalente è che il Giappone sia in declino economico più o meno dall’inizio degli anni ’90. Le cose, come mostra il grafico, non stanno proprio così.
La crescita post-1991 del paese del Sol Levante certamente impallidisce rispetto alle performance ottenute nei decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Prima del 1991 si facevano previsioni non sul “se” ma sul “quando” di un clamoroso sorpasso del Giappone rispetto agli Usa, un po’ come è avvenuto negli anni scorsi per la Cina. E’ però bene tenere a mente che, nonostante tutto, il Pil giapponese a prezzi costanti (la misura abitualmente utilizzata per valutare se un paese cresce) è salito di circa un quinto – del 20,6 per cento, per la precisione – tra il 1991 e il 2015. In parallelo, il Pil dell’Italia saliva solo del 15,4 per cento. Nel frattempo, ad esempio, il Giappone è anche riuscito a riassorbire la crisi post-Lehman. Mentre il Pil italiano scendeva dell’8,3 per cento tra il 2007 e il 2015, quello giapponese saliva dell’1 per cento. Quando dunque si parla di rischio Giappone per l’Italia ci si riferisce (o ci si dovrebbe riferire) al fatto che l’economia italiana rischia di incamminarsi (o si è già incamminata) su un sentiero di crescita sistematicamente inferiore a quella del passato. Riuscire a sostenere il passo del Giappone degli ultimi venticinque anni sarebbe invece – paradossalmente – una buona notizia per l’economia italiana.
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