I patti per il Sud proposti dal governo non sono una nuova modalità di programmazione. Si limitano a ripresentare liste di progetti predisposte senza criteri di razionalità economica. Né sono previste risorse aggiuntive. La riedizione della fallimentare programmazione negoziata degli anni Novanta.

Il masterplan per il Mezzogiorno

Nel novembre 2015 il governo ha presentato le “linee guida” di un masterplan per il Mezzogiorno che rappresenta il quadro di riferimento dei patti per il Sud da sottoscrivere con regioni e città metropolitane meridionali. Secondo il governo, l’obiettivo dovrebbe essere quello di definire per ciascuna area territoriale gli interventi prioritari e trainanti, le azioni da intraprendere per attuarli e gli ostacoli da rimuovere, la tempistica, le reciproche responsabilità.
Il piano prevede investimenti rilevanti, dell’ordine di 95 miliardi fino al 2023. Ma non sono in gioco nuove risorse, solo la dotazione esistente dei fondi strutturali 2014-2020 e quella del Fondo per lo sviluppo e la coesione. D’altra parte, lo stanziamento previsto per il Fondo per lo sviluppo e la coesione, nello stesso ciclo 2014-2020, era di 54,8 miliardi, che però si sono poi ridotti a 38,7, perché i vari governi hanno utilizzato quei finanziamenti per altri scopi. E dei 38,7 miliardi rimasti, solo 13,4 sono specificatamente destinati ai patti e per di più spalmati negli anni: solo 2,7 miliardi nel 2016, 3 miliardi nel 2017 e 3,1 miliardi nel 2018.
Quanto ai patti – che finora sono stati solo in parte stipulati tra governo e amministrazioni – si configurano in realtà come una riedizione dei patti territoriali e più in generale della programmazione negoziata degli anni Novanta e purtroppo ripropongono tutte le caratteristiche negative che ne hanno fatto allora una esperienza fallimentare.

Progetti già avviati o “immaturi”

Occorre premettere che i patti sono essenzialmente un meccanismo finalizzato ad accelerare la spesa delle risorse disponibili a legislazione vigente. E le risorse interessano prevalentemente interventi già individuati in passato che non sono stati finanziati o che lo sono stati parzialmente oppure che non sono stati realizzati o completati. Un esempio per tutti: il rifinanziamento della metropolitana di Napoli con lavori iniziati quaranta anni fa e con il costo al chilometro più elevato del mondo.
Gli interventi prescelti non sono stati selezionati attraverso metodi di valutazione economica. Non si può quindi stabilirne né l’utilità né la desiderabilità sociale. Non si ha così alcun ordine di priorità o graduatoria dei progetti né alcuna garanzia che non vi siano inclusi alcuni non meritori, che avrebbero dovuto essere scartati.
Questa circostanza, già negativa in sé, incoraggia l’azione delle lobby che partecipano attivamente, anche se indirettamente, alla formazione del patto, imponendo iniziative e progetti legati ai propri interessi particolari o “contrattando” gli interventi con altri soggetti per ottenerne l’inserimento nelle liste che corrisponde a una sorta di “priorità”. L’azione delle lobby permea anche l’amministrazione pubblica, sia nel senso di pressioni svolte sull’amministrazione, sia nel senso che in alcuni casi sono i funzionari pubblici stessi a sposare determinate tesi e loro stessi agiscono da lobbisti sulla base di influenze esterne e non di risultati di analisi obiettive.
Una seconda caratteristica negativa riguarda l’inserimento di progetti non sufficientemente definiti o ancora allo stato di studio o di preliminari. Anche in questo caso non essendovi un test di ammissione dei progetti né particolari controlli è stato possibile ammettere progetti non maturi sostenendo che fossero “immediatamente” appaltabili e realizzabili. Convivono così nuovi progetti non ancora maturi e non verificati con progetti già in corso o con vecchie iniziative ripescate e mai valutate.
I patti non sono dunque una nuova modalità di programmazione, sono invece la ripresentazione di liste di progetti predisposte senza criteri di razionalità economica: consolidano così una situazione di fatto che ha lo scopo quasi esclusivo di forzare determinate decisioni per accelerare la spesa. Anche su questo punto, le lezioni dal passato ci dicono che in situazioni analoghe l’obiettivo non è mai stato centrato, probabilmente proprio a causa di come (non) erano stati selezionati i progetti.
Come tutto ciò possa sposarsi con la richiesta di flessibilità degli investimenti che arriva dalla Commissione europea proprio non si capisce. Non siamo in presenza di progetti “aggiuntivi”, ma prevalentemente di quelli già dotati di finanziamento e avviati (che quindi si sarebbero comunque realizzati). Anche laddove sono stati individuati nuovi progetti, questi non sono “maturi” e l’orizzonte temporale della loro messa in opera (e dunque dei pagamenti) non è compatibile con le regole della flessibilità relative all’anno 2016.
Né nuovi progetti, né nuove risorse, né nuova politica infrastrutturale. Cosa ne pensa il ministro delle infrastrutture che con l’allegato a Def aveva deciso di innovare la “pianificazione strategica” introducendo qualità dei progetti, valutazione economica e selezione delle iniziative?

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