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Il lungo addio tra donne e religione

Anche se negli ultimi venti anni si è ridotto, in Italia il divario tra la religiosità delle donne e quella degli uomini resta più alto rispetto ad altri paesi. Soprattutto nelle regioni meridionali, benché il processo di secolarizzazione si faccia strada anche a Sud. Ripercussioni sulla società.

Divario di genere nella religione

La partecipazione religiosa è al livello più basso della nostra storia. Allo stesso tempo, insieme alla Grecia e alla Spagna, l’Italia è uno dei paesi nei quali il divario fra la religiosità delle donne e quella degli uomini è maggiore. Come interpretare questi fatti? Significano forse che il processo di secolarizzazione ha interessato solo, o almeno principalmente, la popolazione maschile?
I dati dell’archivio Istat (sicuramente i più affidabili fra quelli disponibili) ci permettono di dare una risposta all’interrogativo. Nel 1995, il gender gap nella religione era considerevole, perché i praticanti regolari (coloro che si recano almeno una volta alla settimana in un luogo di culto) erano il 30,4 per cento nella popolazione maschile e il 48,5 per cento in quella femminile. Queste percentuali sono diminuite considerevolmente nel ventennio successivo (figura 1) passando, nel 2015, rispettivamente, al 23,3 e al 34,3 per cento. Dunque, il processo di secolarizzazione ha riguardato sia gli uomini sia le donne e anzi, a ben vedere, è stato più forte fra queste ultime. Di conseguenza, il divario di genere è diminuito, ma esiste ancora ed è maggiore di quello di altri paesi dove prevale la religione cristiana. Non disponiamo di dati sufficientemente attendibili per fare confronti internazionali riguardo alla situazione di venti o trenta anni fa. Ma è probabile che la differenza fra l’Italia e gli altri paesi dell’Europa centro settentrionale riguardo al divario di genere nella religione fosse un tempo ancora maggiore.

Figura 1

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La religione nel Mezzogiorno

Le credenze e le pratiche religiose (cristiane e non) sono state a lungo assai più diffuse nelle regioni meridionali e insulari. Un’importante ricerca condotta da un gruppo di studiosi italiani ha messo in luce che, all’inizio degli anni Novanta, nel Sud era più alta la quota della popolazione che si immaginava l’inferno come “un luogo di dannazione per punire i malvagi nelle fiamme eterne”, riteneva che il diavolo fosse “una creatura che esiste realmente e spinge l’uomo al male” e credeva nel malocchio, nell’astrologia e nella telepatia.
Nel Mezzogiorno era anche maggiore il divario di genere riguardo alla frequenza con cui la popolazione andava nei luoghi di culto. Ma nell’ultimo ventennio la frequenza è diminuita anche fra le donne siciliane e campane, calabresi, pugliesi e sarde (figura 2). I dati Istat ci dicono che lo strato della popolazione italiana maggiormente investito dal processo di secolarizzazione è stato quello delle donne del Nord, seguito dalle donne del Sud, dagli uomini del Nord e infine da quelli meridionali. Il gender gap nella partecipazione religiosa è diminuito, dunque, anche nel Mezzogiorno, ma resta maggiore di quello del Settentrione.

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Figura 2

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Il divario di genere nella religione è certamente legato alla generazione di appartenenza. Sia al Nord che al Sud, il rapporto fra la percentuale di donne e quella degli uomini che va in un luogo di culto almeno una volta alla settimana cresce con l’età fino agli 80 anni (tabella 1). Dopo di allora, diminuisce solo perché le crescenti difficoltà motorie rendono le prime sempre più simili ai secondi. Colpisce però il fatto che, soprattutto nel Mezzogiorno, il divario inizi già nelle prime fasi del ciclo di vita, fra i 12 e i 19 anni, durante o subito dopo la cresima e la prima comunione, quando ancora a decidere se partecipare o meno alle funzioni religiose sono gli adulti – i genitori o i nonni – che evidentemente ritengono che per una ragazza sia più appropriato che per un ragazzo andare regolarmente in un luogo di culto.
Tutto fa pensare che l’Italia stia seguendo, seppure a distanza di qualche decennio, la strada degli altri paesi occidentali di tradizione cristiana e che nei prossimi anni, in concomitanza o a causa, dell’attenuarsi di altre diseguaglianze di genere (nel tasso di occupazione e nei livelli retributivi), anche il gender gap nella religione diminuisca. Ma fino a quando non avverrà, è molto probabile che gli italiani (e, fra loro, in particolare quelli delle regioni meridionali) continueranno a convivere more uxorio meno frequentemente dei francesi, dei tedeschi o degli svedesi, a divorziare meno di loro e, se si sentono attratti da persone dello stesso sesso, faranno molta più fatica a dichiarare i loro sentimenti.

Tabella 1

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  1. Riccardo

    Secondo me l’indicatore “a messa tutte le domeniche” è impreciso per misurare la religiosità, e questo vale sia per questo articolo che per quello precedente sul medesimo argomento qua sulLa Voce.

    Il mio sospetto è che più che una sostituzione tra fedeli e atei, abbiamo una sostituzione tra fedeli che vanno a messa una volta a settimana e fedeli che vanno a messa una volta al mese, lasciando invece inalterata la proporzione di persone atee rispetto alle persone religiose.

    Ci sono dati per verificare questo?

  2. Carlo

    Come sono stati condotti questi sondaggi? Ci sono dati sulle percentuali di matrimoni civili, cattolici, e religiosi non cattolici?

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