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Abbandoni universitari: una luce fioca in fondo al tunnel

Cala leggermente il numero degli studenti che non concludono l’università. Ma i nostri atenei devono fare ancora molto per ridurre gli abbandoni e la distanza tra durata prevista ed effettiva dei corsi di studio. Esodo verso Nord, fasce deboli e investimento in istruzione terziaria “rischioso”.

Gli studenti nel rapporto Anvur

Il recente rapporto dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) sull’università fornisce molti dati utili a comprendere i fenomeni che stanno interessando l’istruzione terziaria e la ricerca nel nostro paese. Incominciamo a esaminare quelli relativi agli studenti e al loro percorso di studi. Nel 2015-16 le immatricolazioni hanno ripreso a crescere, ma i tassi di ingresso sono ancora inferiori alla media europea. Il ritardo più grave è tuttavia nel numero dei laureati: l’Italia si posiziona al terzultimo posto dei paesi Ue-27. La causa principale è da individuarsi nella bassa quota di studenti che riescono a completare gli studi. Negli ultimi anni si è riscontrato un lieve miglioramento, dovuto soprattutto alla riduzione delle immatricolazioni da parte degli studenti più “deboli” piuttosto che a un più efficace funzionamento del sistema universitario. Nel 2015-16 il rapporto tra immatricolati con età pari o inferiore a 20 anni e popolazione di età compresa tra i 18 e i 20 anni è cresciuto del 2,4 per cento. Per il secondo anno si è registrata una leggera crescita rispetto a quello precedente, dopo circa dieci anni di andamento negativo. È troppo presto per dire se si tratta di un’inversione di tendenza duratura. Tuttavia, se l’analisi fornita dall’Anvur sui fattori che spiegano la riduzione degli immatricolati sperimentata negli ultimi anni è corretta, un sostanziale cambiamento di marcia non può prescindere da un incremento della natalità, da una maggiore partecipazione degli immigrati all’istruzione terziaria e da un miglioramento di tutto il sistema di istruzione che permetta a un più alto numero di studenti di affrontare con successo gli studi universitari. I fattori demografici sembrerebbero spiegare, infatti, gran parte della differenza nel calo degli immatricolati tra Nord e Sud: la popolazione in età compresa tra i 18 e i 20 anni è cresciuta al Nord, mentre si è ridotta al Sud. Ciò è visibile nel grafico sottostante (fonte Anvur 2016) che scompone la variazione degli immatricolati nella componente dovuta alla dinamica della popolazione, al tasso di diploma e al tasso di passaggio scuola-università. Invece, il contributo negativo dei tassi di passaggio dalla scuola all’università è pressoché uguale tra le due aree, mentre il Centro risente anche di un calo nel tasso di completamento delle scuole secondarie. Queste variabili sono influenzate anche dalla quota dei cittadini stranieri, che hanno una minore propensione a completare la scuola secondaria e a iscriversi all’università: il suo incremento, soprattutto nelle regioni del Nord, ha inciso negativamente sulle immatricolazioni.

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Grafico 1

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L’alto rischio di abbandono e l’eccessiva durata del percorso di studi, punti critici del sistema universitario italiano, oltre a incidere negativamente sui laureati, possono aver scoraggiato le immatricolazioni. Riguardo a questi indicatori il rapporto Anvur mostra qualche lieve miglioramento. Mentre nel 2003-04 circa il 19 per cento degli immatricolati alle lauree triennali terminava regolarmente gli studi, per gli immatricolati nel 2011-12 la percentuale è salita a circa il 27. Un’evoluzione positiva si evidenzia anche relativamente alla quota di immatricolati che non prosegue al secondo anno: nello stesso periodo si è ridotta dal 27 per cento a circa il 25 per cento. I tassi di abbandono, però, sono ancora a livelli allarmanti, circa il 33 per cento dopo sei anni dall’immatricolazione per gli immatricolati nel 2008-09. Inoltre, il miglioramento non è omogeneo: se al Nord i laureati regolari sono circa il 33 per cento (immatricolati 2011-12), al Centro scendono al 27 per cento e raggiungono solo il 16 per cento al Sud.

Tabella 1

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Effetto di selezione

È importante cercare di capire quanta parte dei deboli progressi sia imputabile a un miglioramento del sistema universitario e quanta è invece legata a un effetto di selezione, dovuto alla mancata immatricolazione degli studenti provenienti da situazioni di maggiore svantaggio. I dati relativi alla composizione degli immatricolati segnalano che si tratta soprattutto di selezione. Il calo delle immatricolazioni degli ultimi anni ha infatti riguardato soprattutto gli studenti con background socio-economico più debole che avevano minori probabilità di concludere gli studi. Se nel 2003-04 circa il 34 per cento degli studenti provenienti dagli istituti tecnico-professionali si iscrivevano all’università, nel 2015-16 siamo al 20 per cento. Al contrario, nello stesso periodo per i liceali la percentuale è cresciuta dal 56,3 al 68,1. Gli effetti di selezione potrebbero spiegare anche i diversi risultati degli atenei italiani. Le università del Sud sperimentano una sostanziale riduzione degli immatricolati dovuta non solo ad aspetti demografici, ma anche a un aumento della mobilità degli studenti verso gli atenei del Nord. Gli universitari che emigrano sono quelli con background migliore e dunque gli atenei del Sud si trovano forse a doversi confrontare con una popolazione studentesca più problematica. È comunque evidente che le università italiane, sia al Nord che al Sud, devono accrescere gli sforzi tesi a ridurre gli abbandoni e devono migliorare e innovare la didattica in modo da diminuire la distanza tra durata prevista e effettiva dei percorsi di studio. Solo così si potrà ridurre la rischiosità dell’investimento in istruzione terziaria, con effetti positivi soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione.

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Il Punto

  1. Piero

    Salve, vorrei sottoporre all’autrice dell’articolo il seguente quesito. Come mai in Italia, nonostante l’introduzione della riforma dei corsi universitari “3+2”, si continua a riscontrare un alto numero di fuori corso ? Ho il sospetto che questo fenomeno sia legato anche al fatto che a molte Università serve utenza per giustificare la loro esistenza. Pertanto, si allungano gli anni di studio e allo stesso tempo si fa cattiva pubblicità sul peso della laurea triennale per garantirsi utenti “aficionados” più a lungo possibile. Inutile sottolineare il grave danno che questo ha sul sistema paese in generale.

    • Max

      Sulla durata ancora eccessiva degli studi dopo il 3+2 potrebbe contribuire la possibilità degli studenti, nel sistema italiano, di dare numerose (troppe) volte lo stesso esame sino a quando non lo passano o ottengono il voto desiderato. Mettiamo 6 appelli all’anno, un esame del primo anno può essere provato teoricamente 18 volte nel corso di tre anni (laurea triennale)! In altri paesi c’è un appello per esame ed un resit in caso l’appello ordinario non venga superato. Se non si passa nemmeno il resit si è fuori (“sei fuori!”), e tra l’altro non si può rifiutare il voto. Nel nostro sistema il costo di fallire un esame è quello di dover sostenerlo all’appello successivo, in quei sistemi è di “essere fuori”. In quale dei due sistemi si aspetta ci siano più fuori corso?

    • Alberto

      Semplicemente perchè un buon 3/4 degli studenti universitari finite le superiori non ha sbocchi occupazionali, e tanto per stare a ciondalare dentro casa o al bar, tanto vale ciondalare all’ Università che se ti va bene ti laurei pure…quelli che abbandonano è perchè trovano lavoro.

  2. Daniele

    E’ molto curioso parlare di numero di laureati e tassi di abbandono e mai di livelli di competenza minimi da raggiungere, sarebbe invece interessante capire se la laurea fornisce contenuti utili alla vita delle persone oppure è solamente un pezzo di carta

  3. Simone

    Ottimo articolo, bisogna considerare anche i costi dell’università che sono piuttosto alti. Oltre alle tasse ci son i costi di sostentamento. Io volevo prendere la seconda laurea alla Statale di Milano, ma per motivi di lavoro ho dovuto sospendere per 4 anni, ora per riprendere dovrei pagare 200 euro all’anno per 4 anni oltre alle normali tasse.

  4. Amegighi

    Bellissime analisi, ottimi grafici e valutazioni, precise elaborazioni, ma……
    Ma manca IL dato principale: come pretende, l’Autrice, di migliorare la Didattica delle Università, se il sistema di valutazione per la sua carriera si basa SOLO sulla Ricerca ? (addirittura i nuovi Associati non fanno più neanche la famosa “lezione” al Concorso). Come è possibile che un Ricercatore, prima, e un Professore, poi, si dedichino ai loro studenti se niente viene loro da questa attività ? Nelle Università tedesche ho visto Professori fare lezione alle 7 di sera con una ventina di studenti, impostando il lavoro sulla discussione di un argomento precedentemente scelto. Gli studenti con libri ed appunti discutevano tra loro e con il Professore i vari aspetti osservati e analizzati. Ciò è utilissimo per la didattica, ma richiede preparazione e tempo, che lo sciagurato sistema di reclutamento attuale dei docenti ha totalmente eliminato da ogni valutazione. E così potremmo avere dei bravissimi “Nobel”, assolutamente incapaci ed inadatti a fare didattica. Cosa già scoperta da ANNI negli USA, dove chi fa Didattica, e la fa bene, viene premiato tanto quanto un ottimo scienziato e ricercatore. Andatevi a guardare chi insegna Fisica al MIT sul canale iTunes U e rendetevi conto.
    Vorrei aggiungere inoltre, che se fosse tolto il valore legale del titolo di studio, il valore della didattica salirebbe di molto, proprio per la concorrenza ad reclutare studenti da parte delle Università migliori

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