Tre tesi controverse
Il 13 maggio su lavoce.info è apparso l’articolo “Si legge Ttip, si pronuncia disinformazione” firmato da Francesco Daveri e Mariasole Lisciandro. Secondo le inchieste demoscopiche, in Germania, il paese dove vivo da molti anni, non più del 15-20 per cento della popolazione si esprime oggi a favore di Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) con gli Stati Uniti e Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement) con il Canada: partecipando attivamente alla vita politica e civile tedesca, mi sento in dovere di esprimere qualche breve osservazione su quanto sostenuto nell’articolo. Sorvolo sulle tre tesi esposte e accenno solamente ad alcuni fatti.
- Se è vero, come si osserva nell’articolo, che i parlamenti nazionali saranno chiamati ad approvare i trattati, è anche vero che l’approvazione avverrà dopo un tempo molto lungo, in un periodo di cinque-sei anni, nel quale l’applicazione temporanea avrà cementato le parti di competenza dell’Unione e creato con la prassi una situazione di fatto.
- Se è vero, come si scrive nell’articolo, che l’articolo 191 del Trattato sul funzionamento della Ue prevede esplicitamente l’impiego del principio di precauzione, è anche vero che sentenze da parte di un tribunale arbitrale – composto o no da giudici – potranno senza problemi sovrapporsi e introdurre vulnus a quel principio. La fila delle multinazionali, ad esempio, che già premono per l’introduzione di prodotti geneticamente modificati è consistente.
- Se è vero, come si scrive nell’articolo, che trattative delicate come quelle relative a Ceta e Ttip non possono essere condotte coram populo e richiedono confidenzialità, è anche vero che la politica di informazione è stata palesemente inesistente – e questo in materie di assoluta importanza per i cittadini europei e americani. In Germania solo una generale levata di scudi ha permesso almeno ai deputati di avere accesso all’informazione, peraltro sotto stretto obbligo di confidenzialità e con finestre temporali ridicolmente ridotte (due ore giornaliere).
L’uso indebito dell’arbitrato
Ma il punto centrale che desidero far presente agli autori dell’articolo è un altro. Prima di gridare alla disinformazione si potrebbe forse riflettere sul fatto che due controparti che desiderano armonizzare le proprie legislazioni entrano in trattativa e non lasciano la presunta standardizzazione di regolamenti importanti passare attraverso un processo di costose cause iniziate da imprese multinazionali presso tribunali arbitrali – si stima a una media di circa otto milioni di euro a procedimento. La sola logica vuole che tali procedimenti non possano produrre nuovi regolamenti che sono prerogativa esclusiva degli stati (per esempio più stringenti in Europa sui prodotti farmaceutici e negli Usa su quelli alimentari). Possono essere solo a senso unico, ovvero “al ribasso”, e ciò può portare, in caso di successo di chi intenta causa, alla riduzione delle barriere di protezione dell’ambiente e della salute attraverso l’eliminazione di regole create dopo tanta fatica e battaglie, e in barba all’articolo 191. Se poi facciamo con la logica un altro piccolo passo avanti e riflettiamo sul fatto che gli strumenti di ricorso a tribunali arbitrali, che si chiamino Isds (Investor-state dispute settlement) o Ics (Investment Court System) secondo la versione proposta dalla Commissione europea, conducono alla creazione di nuovo diritto – badiamo bene: non di interpretazione di diritto esistente – al di fuori di strutture inserite in un contesto costituzionale, sorgono dubbi se non si assista a un utilizzo eccessivamente disinvolto, per non dire indebito, dello strumento arbitrale, stravolgendolo rispetto alle sue modalità di impiego originarie. I temi della salute e dall’ambiente, che sono temi eminentemente politici, sono troppo importanti per essere posti sotto la spada di Damocle di aleatori e oscuri tribunali arbitrali. Il Nafta, tra gli altri esempi, insegna.
Pierantonio Rumignani
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