Tutto come prima perché il referendum “no-triv” non ha ottenuto il quorum. Ma non sarebbe cambiato nulla neanche in caso contrario. Perché il quesito riguardava una produzione marginale. E tuttavia il referendum ha avuto il merito di riaccendere il dibattito sul futuro energetico dell’Italia.
Tutto come prima
La vicenda del referendum “no-triv” si è conclusa come era ampiamente anticipabile: tutto resterà come prima. Le 26 concessioni (79 piattaforme, 463 pozzi al 31 marzo 2016) delle 44 a mare entro le 12 miglia, delle 69 a mare totali, delle 188 complessive a mare e terraferma, potranno estrarre idrocarburi senza limiti di tempo, oltre i termini precedenti di scadenza di 50 anni (30+10+5+5).
Di fatto, le compagnie petrolifere non dovranno necessariamente ottemperare all’oneroso obbligo di smantellamento di piattaforme, pozzi e infrastrutture connesse e di ripristino dei luoghi previsto dalla legge alla scadenza della concessione.
Le piattaforme interessate dal referendum potranno continuare a fornire il 27 per cento del gas e il 9 per cento del greggio estratti oggi in Italia, un contributo marginale al soddisfacimento del fabbisogno nazionale se si tiene conto che la produzione complessiva di idrocarburi copre il 10 per cento dei consumi interni mentre il restante 90 per cento arriva dell’estero.
Le piattaforme tuttavia produrranno per un certo periodo di tempo: le riserve interessate dal referendum sono una piccola percentuale di quelle totali del paese, e quest’ultime si esaurirebbero agli attuali (depressi) ritmi di consumo in un lasso che va da 1,5 a 4 anni per il petrolio e da 0,8 a 2 anni per il gas. Anche qui le conseguenze sono marginali.
La dipendenza dall’estero
Abbiamo evitato che aumentasse la nostra dipendenza energetica dall’estero? No. Le minori importazioni associate alla produzione delle trivelle interessate dal referendum sono marginali. Uno dei tanti fattori di confusione nell’opinione pubblica è che la minore dipendenza energetica significherebbe minori esborsi per benzina, elettricità e riscaldamento. In realtà, minore dipendenza significa maggiore sicurezza degli approvvigionamenti e quindi un minor rischio che qualcuno possa negare ai consumatori italiani le fonti di energia di cui hanno bisogno, ma che non hanno; e significa anche un minore rischio che un fornitore con potere monopolistico (la Russia, per esempio) faccia loro pagare un prezzo maggiore. Chiarito questo aspetto, va detto che il referendum, qualunque fosse stato il suo esito, nulla avrebbe aggiunto né tolto alla questione che va affrontata e risolta, nella transizione, con la diversificazione geografica degli approvvigionamenti per il gas (non tralasciando la disciplina degli stoccaggi e la questione dei rigassificatori) e con la valorizzazione di quelle fonti rinnovabili disponibili nell’immediato e, in prospettiva, con il perseguimento e proseguimento di politiche per la loro diffusione nella produzione di elettricità, riscaldamento e trasporti e per l’incremento dell’efficienza energetica.
Un esercizio inutile?
È stato allora un esercizio inutile questo referendum? Sì e no. Sì perché una volta disinnescati con la legge di stabilità 2016 gli altri cinque quesiti originari, l’ultimo rimasto in piedi sarebbe comunque stato privo di conseguenze concrete. Si potevano risparmiare soldi in ogni caso, sia non celebrandolo sia accorpandolo alle elezioni amministrative. Ma qui sono subentrate considerazioni e interferenze della politica rispetto alle quali ci fermiamo.
Non è stato però un esercizio inutile perché ha finito per (ri)accendere i riflettori sulla strategia energetica e ambientale del nostro paese. Si sono viste all’opera due visioni diverse, che non definiremo necessariamente contrapposte, ma sicuramente animate da una diversa sensibilità e soprattutto da un diverso senso dell’urgenza in ordine all’intervento da dispiegare per accelerare le transizione energetica del paese.
Il pensiero va allora alla Strategia energetica nazionale voluta dai ministri Passera e Clini del gabinetto Monti, pubblicata nel marzo del 2013, e alla necessità di un suo urgente aggiornamento, che allinei in maniera chiara e precisa gli strumenti agli impegni presi dall’Italia a Cop21 e controfirmati in questi giorni a New York alle Nazioni Unite e agli obblighi europei dei pacchetti “20-20” al 2020 e “40-27” al 2030 in materia di emissioni e fonti rinnovabili.
Nel contempo, la cronaca registra passi indietro del governo sugli incentivi alle rinnovabili, che sarebbero più giustificati se vi fosse un sostanziale segnale di prezzo del carbonio nell’Ets (Emissions Trading Scheme) coerente con il crescente valore dei danni dei cambiamenti climatici, che invece non si registra. Così arretrano eolico e fotovoltaico, mentre i dati preliminari dell’Ispra ci dicono che nel 2015 le emissioni italiane di gas serra sono aumentate del 2 per cento rispetto al 2014, dopo una costante discesa che proseguiva dal 2006 (con eccezione per il 2010).
In occasione del referendum, Matteo Renzi ha avuto modo di dichiarare l’obiettivo del governo è arrivare al 50 per cento da fonti rinnovabili sul totale della generazione elettrica entro fine legislatura.
Come nel poker, noi vogliamo andare a vedere.
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