La revisione del patto di stabilità interno è utile, ma non risolutiva. Perché per i comuni resta comunque il vincolo sulla competenza per le spese finali. E perché i municipi hanno perso l’autonomia impositiva. Bisognerà trovare altri modi per finanziare gli investimenti, almeno quelli meritevoli.
Patto rivisto, ma solo per quest’anno
Che succede alla finanza comunale? Dopo anni di tagli e continui interventi sui tributi comunali, a cominciare dalla tassazione sulla casa, si è finalmente raggiunto un nuovo equilibrio? Vediamo gli interventi più recenti.
La legge di stabilità 2016 affronta in maniera decisa l’ormai quasi ventennale questione relativa al patto di stabilità interno, da molti indicato come una delle principali tagliole alla ripresa degli investimenti. La versione breve, rimbalzata anche sulla stampa, è che il patto sia stato abolito. La versione lunga è un po’ diversa.
Intanto, non è che non ci siano più vincoli sui saldi dei comuni; semplicemente, i complessi meccanismi del patto sono stati sostituiti da altri, più semplici e meno esigenti. In particolare, gli enti locali sono ora tenuti a conseguire un unico saldo non negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali.
Ciò che non si dice, o che si dice male, è che l’alleggerimento vale per il momento solo per quest’anno. Infatti, la legge 243 del 2012 (la nostra traduzione del fiscal compact europeo), la cui applicazione è per ora solo rimandata, prevede una definizione di equilibrio di bilancio articolata su ben otto saldi: sia nella fase di previsione sia in quella di rendiconto, i bilanci dei comuni devono registrare un saldo non negativo, in termini di competenza e in termini di cassa, tra le entrate finali e le spese finali; e un saldo non negativo, ancora sia in termini di competenza sia di cassa, tra le entrate correnti e le spese correnti. La legge di stabilità 2016 si limita invece a prevedere che i bilanci dei comuni debbano registrare un saldo non negativo, in soli termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali.
Il problema è che la legge 243 è una legge “rafforzata”; cambiarla richiede una maggioranza da riforma costituzionale. Il governo ci sta lavorando ed è bene che lo faccia; all’alleggerimento del patto è legata la possibilità di una ripresa strutturale degli investimenti locali, ma è chiaro che, passato il primo momento in cui chi ha soldi in cassa probabilmente li spenderà, nessuna amministrazione comunale metterà in piedi programmi di investimento se non sa con certezza cosa succederà in futuro.
La questione delle entrate
Al contrario, il lato oscuro dell’operazione è la totale scomparsa dell’autonomia impositiva dei municipi.
Tolte Tasi e Imu su una buona parte degli immobili, il governo ha pensato bene anche di bloccare ogni altra forma di autonomia impositiva (addizionale Irpef, gli altri immobili), forse per timore che i comuni, senza l’imposta sugli immobili di residenza, si rifacessero sugli altri cespiti. Va bene che il governo vuole ora che i comuni vendano le partecipate, ma un sistema finanziario locale basato solo sui trasferimenti a regime non funziona, per le tante ragioni più volte discusse. Certo non incentiva la responsabilità fiscale. Può darsi che si tratti solo di un passaggio temporaneo; ma per il momento tutto il dibattito sulla local tax prevista dal governo, e di cui si sono riempite le pagine dei giornali, si riassume in un solo dato: la local tax ancora non c’è.
Nella legge di stabilità ci sono anche altre “chicche” preoccupanti. Una è la possibilità concessa ai comuni di utilizzare fino al 100 per cento delle entrate da oneri di urbanizzazione per finanziare (alcune) spese correnti. È una sciocchezza. Gli oneri di urbanizzazione sono entrate in conto capitale, per loro natura straordinari e molto variabili. Usarli per finanziare spese correnti significa introdurre estrema aleatorietà rispetto alla continuità di quelle spese. Inoltre, favorire il ricorso agli oneri di urbanizzazione significa, di fatto, incentivare il consumo del territorio, l’opposto di quello che si dovrebbe fare.
In conclusione, la revisione del patto è un passo utile, ma non risolutivo. Se i tributi sono bloccati e comunque resta il vincolo sulla competenza per le spese finali, comprese dunque quelle in conto capitale, bisognerà trovare altri modi per finanziare gli investimenti. E si noti che si parla qui di investimenti lordi, che includono cioè anche le spese per il mantenimento del capitale pubblico. I “patti verticali” (i saldi dei comuni possono diventare negativi se la regione di appartenenza si accolla il costo dello sforamento), confermati dalla legge di stabilità 2016, hanno parzialmente funzionato in passato, ma dipendono dalle risorse delle regioni, anche queste ora in riduzione.
È possibile che l’unica soluzione sia allora che lo stato si decida a metterci un po’ di soldi propri, incentivando almeno gli investimenti “meritevoli”. Sulla falsariga di quanto previsto questo anno con i 500 milioni messi a disposizione dei comuni per l’ammodernamento delle strutture scolastiche.
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