La vicenda della Volkswagen mette in evidenza i diversi approcci su ambiente e procedure adottati da Europa e Stati Uniti. Serve invece una maggiore integrazione dei mercati con la definizione di standard comuni. E una metodologia efficace per misurare consumi ed emissioni in un contesto reale.
Un freno alle emissioni: ma quali?
Il Dieselgate continua a campeggiare sulle prime pagine dei giornali, anche per i sospetti che a truccare i test sulle emissioni non sia stata solo la Volkswagen. Della vicenda si parlerà ancora per molto e probabilmente, come già successo in passato per casi simili, finirà per avere anche una trasposizione cinematografica.
In ogni caso, i fatti restano alquanto complicati ed è utile fare il punto sui diversi approcci ambientali e procedurali adottati negli Stati Uniti e nell’Unione Europea.
Sia in Europa sia negli Usa, infatti, le automobili devono rispettare numerosi limiti di emissioni per diversi inquinanti. Come si può notare dalla tabella sottostante, in un caso e nell’altro differiscono notevolmente.
In modo particolare, gli Stati Uniti applicano limiti più severi agli inquinanti locali, fra cui gli ossidi di azoto (NOx); mentre l’UE prevede soglie più stringenti sui gas a effetto serra. Altra differenza è il diverso trattamento dei motori diesel: l’Europa, per alcuni inquinanti, fissa limiti meno rigorosi; negli Usa invece, i valori da rispettare sono gli stessi, indipendentemente dal tipo di carburante.
Paese che vai inquinante che trovi
Non ci addentriamo nei motivi di una così diversa regolazione, ma richiamiamo alcuni aspetti storici: le piogge acide negli Stati Uniti e il contenimento delle emissioni di CO2 in Europa.
Nel 1990, in risposta al problema delle piogge acide, gli Usa adottano il Clean Air Act, che, fra le altre cose, introduce limiti particolarmente stringenti per SO2 e NOx. Il successo del programma ha portato l’Epa (Environmental Protection Agency) ad avere un’attenzione particolare per questo tipo di inquinanti.
L’Unione Europea, invece, anche a seguito dell’adozione del protocollo di Kyoto, si è sempre concentrata sulla riduzione delle emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti, introducendo limiti stringenti per questo tipo di gas. Anche in questo caso, c’è stato un indubbio successo nella riduzione delle emissioni, che ha determinato la ricerca di un loro contenimento sempre maggiore.
E, pur senza spingersi in discorsi da appassionati d’auto, va citata la storica affezione degli americani per le grosse cilindrate e la benzina (grandi mezzi, con grossi motori).
Per questo, negli Usa le motorizzazioni diesel hanno una ben scarsa diffusione (meno del 3 per cento delle vendite), benché consumino meno carburante e quindi emettano meno CO2. Lo stesso vale per il Sud America, per non parlare del Giappone.
In Europa, invece, le auto diesel rappresentano il 55 per cento delle vendite e da tempo le case automobilistiche europee sono impegnate nel loro sviluppo. In tutti i Paesi, ovviamente, le rispettive lobby nelle regolamentazioni ambientali difendono le competenze nazionali.
Tutto ciò spiega perché degli 11 milioni di vetture del gruppo Volkswagen equipaggiate con il motore incriminato, il 2.0 Tdi, solo 482mila siano state vendute negli Usa in cinque anni. E forse spiega anche la speranza di Volkswagen di farla franca.
Omogeneizzazione delle regole
Un’altra importante differenza fra Usa e UE è, infatti, il principio di responsabilità del costruttore. Su entrambe le sponde dell’Atlantico le automobili sono soggette a omologazione prima della vendita. Ma solo negli Stati Uniti il costruttore resta responsabile delle emissioni anche dopo la vendita del veicolo, posto che il proprietario faccia una corretta manutenzione. In Europa, invece, la responsabilità è “franco fabbrica”: il costruttore non è più responsabile delle emissioni del veicolo. Per questo motivo, i controlli a campione su almeno mille veicoli diesel di tutti i marchi (costo previsto otto milioni di euro), annunciati dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio, non potranno che essere fatti – sempre in laboratorio – sulle auto nuove, prima che vengano immatricolate. E saranno tutte Euro VI, standard che, per ora, tutti danno per rispettato.
Tanti, un po’ troppo sbrigativamente, stanno già celebrando il funerale del diesel. Ma, prima, bisognerebbe parlare delle conseguenze sulla Conferenza sul clima (Cop 21) che si terrà a Parigi a dicembre e di una maggiore integrazione dei mercati, peraltro già in discussione con il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership).
L’unificazione degli standard, diversi anche per quanto riguarda la sicurezza, liberebbe non poche risorse ora impiegate in doppie progettazioni.
In molti nell’UE temono il trattato perché pensano che le regole ambientali americane siano molto lasche, rispetto alle nostre. Almeno per le auto, è vero solo in parte e crediamo che, anche per il polverone sollevato dallo scandalo Volkswagen, l’eventuale convergenza mai potrà essere un compromesso al ribasso.
Come ineluttabile pare la necessità di accelerare su una metodologia efficace – e auspicabilmente comune – nel misurare consumi ed emissioni in un contesto più attinente al reale, il già previsto Rde (Real Driving Emissions) per l’Europa.
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