In Italia quasi quattro parti su dieci sono effettuati con un taglio cesareo. I numeri variano molto da provincia a provincia, ma al Sud si concentrano le percentuali più alte. Le possibili cause del costante aumento e le misure per limitare la pratica ai soli casi di effettiva necessità clinica.
Differenze fra province
In Italia quasi quattro parti su dieci vengono effettuati con un taglio cesareo: nel 2013 si è registrato un tasso pari al 36,3 per cento, più elevato rispetto agli altri paesi europei e agli Stati Uniti e aumentato nel tempo (era l’11 per cento nel 1980. Vedi figura 1). I dati mostrano anche una considerevole variazione geografica: la percentuale di cesarei sul totale dei parti in Campania supera il 60 per cento, mentre in Friuli Venezia Giulia – che ha il tasso più basso del paese – è del 23,4 per cento nel 2013.
La notevole variabilità territoriale del ricorso al cesareo non è spiegata da una diversa distribuzione dei fattori di rischio tra province. Dai dati emerge chiaramente che nelle province dove i tassi sono elevati, il taglio cesareo viene praticato a pazienti in media meno “appropriate clinicamente” (figura 2), ovvero a donne che in base alle caratteristiche di rischio osservabili nella scheda di dimissione ospedaliera hanno una bassa probabilità di taglio cesareo nella provincia media.
I numeri mostrano invece come la frammentazione dei punti nascita possa costituire un elemento fondamentale per spiegare la variabilità geografica. L’incidenza di piccoli punti nascita (meno di 500 parti l’anno) è correlata con il tasso di cesareo tra province. Il parto naturale non è programmabile, quindi richiede disponibilità di assistenza continuata. Ciò genera elevati costi fissi che non sono recuperabili per volumi bassi di attività. Al contrario, il parto cesareo è programmabile, consente al medico di gestire e programmare la propria attività professionale, agli ospedali e case di cura di limitare i costi fissi e garantisce introiti maggiori (il rimborso per Drg di parto cesareo è generalmente più elevato del rimborso per parto naturale).
Le ragioni della crescita
Oltre alla variabilità geografica, la figura 1 mostra un fortissimo trend crescente soprattutto nel Sud e nelle Isole. Trend simili nel ricorso al cesareo si sono registrati anche in altri paesi e la letteratura medica ha evidenziato diversi fattori che aiuterebbero a spiegarli, come i progressi dell’anestesia, che permettono di effettuare la maggior parte dei cesarei con analgesia loco-regionale, a paziente sveglia, la creazione di reparti di terapia intensiva neonatale, la diffusione di moderne tecniche diagnostiche pre-parto, la riduzione dell’uso del forcipe e l’innalzamento dell’età media al parto.
In Italia, ancora una volta, i volumi giocano un ruolo importante: la riduzione del tasso di fertilità (soprattutto nel Sud) potrebbe contribuire a spiegare l’aumento dei cesarei.
Sebbene siano necessari altri studi per stabilire il nesso causale, va notato che vi è una forte correlazione negativa tra il tasso di fertilità e il ricorso al cesareo, pur controllando per tutti i fattori che abbiano potuto generare cambiamenti nel tempo nelle due variabili diversi da regione a regione e al netto delle differenze strutturali tra province. I volumi si riducono e i costi fissi per garantire parti naturali diventano insostenibili.
Inoltre, la riduzione del tasso di fertilità rappresenta uno shock di reddito negativo per i medici che potrebbero aumentare di conseguenza il ricorso al taglio cesareo, più remunerativo, per compensare la perdita nel volume di attività, come mostrato in uno studio condotto negli Stati Uniti nel 1996 da Jonathan Gruber. Il meccanismo di compensazione potrebbe valere soprattutto per i piccoli centri nascita in case di cura private e spiegare l’elevato tasso di crescita dei cesarei nel Mezzogiorno registrato negli anni Novanta.
Alla luce dei dati, sembra dunque che gli elevati tassi di cesareo che si registrano in alcune aree in Italia non siano frutto di una necessità clinica e potrebbero essere evitati. Tanto più perché il taglio cesareo può avere importanti implicazioni negative sulla salute delle donne e dei bambini: i tassi di mortalità materna e di complicanze gravi sono più elevati nelle donne che partoriscono con taglio cesareo, la probabilità di allattare al seno più bassa e l’età gestazionale al parto significativamente ridotta rispetto al parto naturale.
Sebbene sia necessaria molta cautela nell’interpretare tali relazioni (c’è infatti un chiaro problema di selection che non consente un’interpretazione causale) è però senz’altro vero che i costi del sistema sanitario nazionale potrebbero essere ridotti limitando il ricorso al taglio cesareo unicamente ai casi di effettiva necessità clinica.
Ciò è non solo auspicabile, ma anche possibile, come dimostrato dall’esperienza del presidio ospedaliero San Leonardo di Castellammare di Stabia, dove il tasso di cesarei è passato dal 52,7 per cento del 2003 al 17,5 per cento del 2008 grazie alla redazione di linee guida di contenimento del taglio cesareo e di un piano di monitoraggio. Anche in Lombardia si è riusciti a contenerne il tasso equiparando i rimborsi per cesareo e parto naturale e incentivando il ricorso al parto naturale analgesico e in Emilia-Romagna con la creazione di dipartimenti materno-infantili.
Per ottenere risultati diffusi (ed evitare che la riduzione di cesarei in un dato punto nascita sia compensata dal contemporaneo aumento in un punto nascita vicino) è però necessario che si adotti una linea comune a tutto il sistema, volta a ridurre la medicalizzazione della gravidanza e mettere al centro le esigenze della donna e del bambino.
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