Le riforme del Governo Renzi hanno rimesso in discussione il modello italiano di federalismo. Ma non è chiaro quale nuova struttura si vuole ora disegnare per i governi locali. E non è una questione astratta di architettura istituzionale. È un tema concreto di funzionalità delle politiche.
GLI INTERVENTI DEL GOVERNO
Ma che succederà ai governi locali in Italia? Dopo tanto parlare di federalismo fiscale, la crisi finanziaria prima e, soprattutto, gli interventi decisi dal governo Renzi poi hanno rimesso in discussione tutto il modello su cui si era andata articolando la struttura dei governi territoriali negli ultimi vent’anni.
Poco male si dirà, visto che quel modello non è che avesse funzionato granché. Ma il problema è che non se ne vede uno alternativo. E senza un sistema delle autonomie che funzioni, anche molte politiche potenzialmente utili diventano difficili da farsi.
La lista degli interventi del Governo Renzi è lunga. L’anno scorso, con l’approvazione definitiva del decreto Del Rio, si sono rivisti compiti e funzioni di tutti i governi sub-regionali, con l’abolizione dell’elezione diretta dei consigli provinciali, la riduzione delle funzioni e risorse attribuite alle residue province, l’introduzione delle Città metropolitane, l’estensione delle unioni dei comuni. Nel contempo, la riforma costituzionale del Senato, la cui approvazione definitiva (salvo referendum finale) ora si avvicina, rivede anche tutti i compiti e le funzioni delle regioni (oltre a sancire definitivamente l’abolizione delle province).
Le regioni, o meglio i consigli regionali, ottengono un ruolo diretto, sebbene limitato, nella formazione delle leggi statali per le materie di loro competenza, tramite l’elezione indiretta dei senatori. Però vedono anche drasticamente ridotte le loro competenze, con l’abolizione delle materie a legislazione concorrente, il ridimensionamento di quelle a legislazione esclusiva e perfino con l’introduzione di una “clausola di supremazia” che riduce fortemente la possibilità di ricorrere con successo alla Corte costituzionale. Di più, gli interventi finanziari che si sono susseguiti negli ultimi anni, compreso quello deciso dal Governo Renzi, ne hanno ridotto drammaticamente gli spazi finanziari, soprattutto per tutte le funzioni diverse da quelle sanitarie. Anche l’eliminazione dalla base imponibile dell’Irap del costo del lavoro, di per sé cosa positiva, ha privato le regioni di una parte rilevante del loro strumento tributario principale.
IL MODELLO REGIONALE
Tutto questo rimette in discussione il modello di federalismo fiscale così come si era venuto configurando a partire dai primi anni Novanta e ratificato con la riforma del Titolo V nel 2001, senza però che sia chiaro cosa ne prenderà il posto. Il cuore del vecchio sistema era rappresentato dalle regioni, che assumevano poteri legislativi in un campo amplissimo di funzioni, salvo dover rispettare le regole generali (i principi) poste alla base della loro attività dalla legislazione statale. Avevano già storicamente un ruolo importante nella sanità, oltre che nei trasporti e gestione del territorio, e logicamente avrebbero dovuto assumerne uno altrettanto rilevante nella scuola e nella finanza locale; c’erano già sentenze della Corte costituzionale che indicavano questa strada come obbligata alla luce del Titolo V. Allo Stato sarebbe rimasta la gestione dei beni pubblici fondamentali (giustizia, ordine pubblico, difesa, moneta, eccetera) più una generale garanzia della tenuta politica ed economica del sistema, tramite la fissazione di standard uniformi per i servizi principali e il finanziamento di un fondo perequativo a vantaggio dei territori più poveri.
Naturalmente, questo modello non è mai stato davvero applicato. Il governo centrale, soprattutto in un momento di crisi economica, si è guardato bene dal cedere poteri e risorse, qualunque cosa dicesse la Costituzione. L’ultimo tentativo in questo senso, la legge delega del 2009, si è rilevato un obbrobrio senza senso, il tentativo di trovare un compromesso tra istanze contraddittorie. E soprattutto, il risultato complessivo dell’operare delle regioni, anche tenendo conto di luci e ombre, non è stato nel complesso positivo, fino al suicidio finale a seguito dei ripetuti scandali sull’utilizzo dei fondi per la politica regionale. Più che altro, gli ampi poteri legislativi delle regioni sono stati utilizzati in funzione negativa, di blocco della legislazione nazionale, piuttosto che in modo propositivo. In un paese già barocco, la sovrapposizione della legislazione regionale con quella statale ha rallentato ulteriormente l’attività economica e drenato il consenso residuo nei confronti delle regioni.
IL FUTURO
Bene dunque la revisione e semplificazione di poteri e competenze dei governi sub-centrali, come la riduzione nel loro numero. Ma per andare dove? Qui non si capisce. La revisione di funzioni delle province sta andando a rilento e il governo non sembra avere in mente nulla di più strategico che tagliare fondi e personale, approfittando della scomparsa degli interlocutori politici: chi e con quali risorse svolgerà molte delle funzioni prima attribuite alle province resta tuttora un mistero.
Le città metropolitane pure sono un’operazione a mezz’aria; hanno le stesse dimensioni e le stesse risorse (ridotte) delle province che sostituiscono, ma più funzioni di queste e non si capisce bene come potranno svolgerle. Così dimezzate di poteri, non è neanche chiaro quale ruolo debbano svolgere le regioni, oltretutto con le risorse residue.
E non si tratta solo di un problema astratto di architettura dei governi; è un tema concreto di funzionalità delle politiche. Per fare un solo esempio, un problema macroscopico che deve affrontare il paese è come continuare a finanziare in modo adeguato gli investimenti pubblici locali, i tre quarti degli investimenti pubblici complessivi, già più che dimezzati dall’inizio della crisi. I patti europei impediscono agli enti locali di finanziarli a debito e non ci sono soldi per i trasferimenti, ma è assurdo pensare che un comune non possa asfaltare una strada o ristrutturare un ponte finché non ha fino all’ultimo centesimo dei finanziamenti richiesti. Nella nostra interpretazione del fiscal compact europeo, la soluzione era stata trovata affidando alle regioni il compito di garantire il finanziamento degli investimenti, mantenendo l’equilibrio di bilancio complessivo tra tutti gli enti che insistevano sul loro territorio, comuni e regioni comprese. Con che risorse e con quali poteri ora lo faranno? E questo è solo uno dei molti esempi che si potrebbero fare. Urge una riflessione complessiva.
L’articolo è disponibile anche su www.tvsvizzera – radiomonteceneri
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