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IL RISCHIO DELLA CRISI DI LIQUIDITÀ

Il mercato monetario dell’area euro mostra oggi i sintomi di una crisi di liquidità, come quella che ebbe inizio nell’agosto 2007. Questa volta però le banche italiane sono molto più esposte alla bufera, perché i titoli pubblici italiani hanno preso il posto dei famosi asset tossici che causarono la crisi di allora. Se questi primi sintomi dovessero aggravarsi, la stabilità del nostro sistema bancario poggerebbe sull’assistenza della Bce.

Il 9 agosto è una data significativa: quel giorno del 2007 scoppiava la crisi di liquidità che avrebbe condizionato il funzionamento dei mercati finanziari per un lungo periodo e che ebbe il suo apice con il fallimento di Lehman Brothers. In questi giorni il mercato interbancario europeo sta mostrando gli stessi preoccupanti sintomi di allora: allargamento dello spread tra tasso a tre mesi e tasso overnight, ampio ricorso alla Bce, che si sostituisce di fatto al mercato.

AGOSTO 2007 E 2011: STESSI SINTOMI

Cominciamo dal primo indicatore. Il grafico mostra l’andamento del differenziale tra il tasso interbancario a tre mesi dell’Eurozona e il tasso a un giorno (overnight). (1) Lo spread, che si era mantenuto per quasi tutto l’anno in una fascia compresa tra i venti e i trenta punti base, ha subito un netto incremento a partire dalla metà di luglio, arrivando a superare il mezzo punto percentuale. È quindi aumentato il premio al rischio che le banche richiedono per prestarsi soldi tra di loro. Si tratta di un premio contro un duplice rischio: di credito e di liquidità. Il primo si riferisce al rischio che la controparte non restituisca il suo debito. Il secondo deriva dal fatto che il prestatore potrebbe a sua volta trovarsi a corto di liquidità in futuro e avere difficoltà a finanziarsi sul mercato, quindi esige un prezzo maggiore per prestare i fondi liquidi a sua disposizione. In altre parole, si è ridotta la fiducia reciproca tra le banche e la capacità del mercato di smistare la liquidità, peraltro abbondante.
Il cattivo funzionamento del mercato interbancario è testimoniato da un altro indicatore: il ricorso al deposito marginale presso la Bce è quasi quadruplicato nel giro di un paio di settimane (da 32 miliardi del 22 luglio a 118 miliardi del 4 agosto). Finanziarsi presso la Bce e ridepositare i soldi presso la Bce stessa comporta un costo rilevante per una banca (75 punti base), ragion per cui normalmente questo tipo di operazione non avviene. L’improvviso aumento del ricorso allo strumento ha una sola motivazione: le banche temono di non trovare sul mercato la liquidità necessaria in caso di bisogno, quindi vogliono avere una riserva di liquidità sicura presso la banca centrale.

La Bce stessa si è naturalmente resa conto che le condizioni sul mercato monetario sono tese, annunciando il 4 agosto una operazione straordinaria a sei mesi di ammontare illimitato, oltre a confermare la prosecuzione delle operazioni “a rubinetto” (tasso fisso e quantità illimitata) anche sulle scadenze più brevi. In questo modo, la Bce accetta di sostituirsi al mercato, fornendo alle banche tutti i finanziamenti richiesti.

BANCHE ITALIANE PIÙ ESPOSTE

I sintomi di malessere sul mercato interbancario sono quindi gli stessi del 2007-2008, seppure quantitativamente più contenuti (finora). La differenza fondamentale riguarda però le banche italiane. La crisi di allora ebbe origine in un mercato, quello delle asset backed securities (Abs), al quale le nostre banche erano poco esposte. Al contrario, la crisi di liquidità attuale trae origine dalla crisi di solvibilità di alcuni debitori sovrani, in particolare l’Italia. Che il nostro paese sia il problema del momento è testimoniato dal fatto che i tassi sui titoli pubblici di altri paesi periferici – Grecia, Irlanda e Portogallo – sono scesi dopo l’ultimo vertice europeo di luglio, mentre quelli italiani sono saliti vistosamente. Le banche italiane hanno in portafoglio pochi titoli di quei tre paesi, ma sono imbottite di titoli del debito pubblico italiano. Sono perciò molto esposte a una crisi di liquidità che trae origine da una perdita di affidabilità del nostro settore pubblico. Stanno già pagando il “rischio paese” con un maggiore costo dei finanziamenti reperiti sui mercati finanziari. Non a caso sono state in prima fila nel sollecitare il governo a una “discontinuità” nella gestione della finanza pubblica e dell’economia, insieme alle altre parti sociali.
Cosa succederebbe se la crisi di liquidità dovesse aggravarsi? L’esperienza insegna (si vedano le banche greche, ma anche il celebre caso della banca inglese Northern Rock) che prima si muovono i mercati all’ingrosso, poi i depositanti al dettaglio. Dopo che le istituzioni finanziarie hanno ritirato i loro finanziamenti, i depositanti ritirano i loro soldi dalle banche. Quest’ultima è per ora considerata una eventualità remota per le banche italiane. Bisogna però fare attenzione al fatto che tipicamente i fenomeni di panico si verificano rapidamente, non appena la fiducia collettiva sulla solidità delle banche si deteriora.

QUALI CONSEGUENZE?

In ogni caso, anche una crisi di liquidità limitata ai mercati all’ingrosso avrebbe conseguenze negative rilevanti. Primo, la carenza di liquidità può condurre all’insolvenza, se una banca è costretta a liquidare massicciamente attività illiquide. Per scongiurare questa eventualità, la banca centrale interviene come prestatore di ultima istanza. Attenzione però: un massiccio ricorso a questo strumento condurrebbe il nostro sistema bancario a una dipendenza patologica dalla Bce, come è già successo per le banche greche e irlandesi. Secondo, la difficoltà o il maggiore costo nel reperire finanziamenti sui mercati internazionali può condurre a una contrazione dell’offerta di credito. Per una economia fortemente dipendente dal credito bancario come quella italiana sarebbe un duro colpo: un credit crunch rischierebbe di affossare la già debole ripresa della nostra economia.

 


(1) Per la precisione, si tratta dello spread tra l’Euribor a tre mesi e l’Eonia swap sulla stessa scadenza: quest’ultimo fornisce una indicazione del tasso overnight atteso dal mercato nei prossimi tre mesi.

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CHI TROVA UN AMICO TROVA UN LAVORO

  1. Marco Solferini

    Condivido l’analisi espressa dall’Autore. Soprattutto l’aver evidenziato, sinteticamente ed in modo efficace, le similitudini con il 2007 citando casi molto pertinenti alla possibile evoluzione Italiana. Il rischio principale è il credit crunch, che avrebbe conseguenze anche sul mercato del lavoro, già molto in sofferenza. Merita un accenno il fatto che i fondamentali di una buona parte delle imprese quotate sul mercato a mio avviso non giustificavano l’esposizione dei fondi d’investimento, ne i ricorsi alle leve finanziarie. La finanza creativa delle imprese ha tenuto in vita tigri di carta, semplicemente spostando i debiti (certo non facendoli sparire) spesso richiamando l’attenzione sul ruolo dello Stato, già gravemente influenzato dal deficit e da una pluralità di sofferenze strutturali che le riforme (mancate o impossibilitate – va detto che non sono pochi i gruppi d’interesse che si oppongono con forza in Parlamento e con altrettanta sistematicità) non paiono nella condizione di sanare o curare, ma solo di “rimandare”.

  2. mirco

    Credo che per risolvere la crisi questo governo non ha gli strumenti culturali per farlo. E’ espressione di una ideologia politica che avversa la tassazione dei ricchi. Berlusconi incarna il tea party americano. Non attuerà mai disposizioni di legge per tassare oggi i ricchi e permettere ai meno abbienti di conservare il lavoro e di far ripartire i consumi, risolvendo il problema del debito dello stato. Se non con la patrimoniale si potrebbe costringere i più ricchi ad un prelievo forzoso del 12% della loro ricchezza e trasformarla in un prestito (BTP irredimibili) al tasso dei bund tedeschi con eventuale sorteggio del rimborso del capitale a cominciare tra 15 anni. (bella soluzione no? invece di toccare le pensioni……)

  3. Nic

    Forse il nostro premier (e i suoi accoliti) dovrebbe leggere anche un po’ di stampa internazionale, oltre alla gazzetta…

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