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UNA SPINTA PER LA CRESCITA

È sicuramente importante che al centro del dibattito ritornino temi come le procedure per la quotazione o gli ostacoli alla crescita rappresentati dai costi di regole complesse, opache e spesso totalmente inutili. Senza però dimenticare che gli imprenditori italiani non hanno colto l’occasione offerta dalla nuova disciplina dei mercati finanziari e del diritto societario. Un ordinamento realmente funzionale alla crescita, dove tutti possano competere ad armi pari, è un ordinamento che deve avere il coraggio di disincentivare la piccola dimensione.

 

DUE INCONTRI, UN FILO CONDUTTORE

Due incontri tra loro molto diversi, ma uniti da un filo conduttore: le regole per far crescere le imprese.
Il nuovo presidente della Consob incontra il mercato a Milano e non potrà non riprendere i contenuti di una delle sue prime uscite ufficiali davanti alla commissione Finanze della Camera: le piccole e medie imprese italiane non amano una borsa con un livello di capitalizzazione molto basso e incomparabile con i nostri partner. (1) Bisogna, allora, definire un nuovo quadro regolamentare che abbassi i costi di quotazione per agevolare l’accesso al capitale di rischio, condizione essenziale per un salutare percorso di crescita dimensionale del sistema produttivo. Non si tratta, certo, di una grande novità; anche la relazione dell’anno scorso dedicava un capitolo alla “borsa come motore di sviluppo” dove, in modo più sintetico, si esprimevano concetti simili. (2) Solo che questa volta si indica anche una delle possibili soluzioni: riportare le procedure di listing in capo direttamente alla Consob.
Confindustria tiene a Bergamo le assise generali, dopo una lunga discussione, seguita attentamente dal suo quotidiano, tutta incentrata sugli ostacoli alla crescita rappresentati dai costi di regole complesse, opache e spesso totalmente inutili. Le parole d’ordine sono ridurre, semplificare, razionalizzare. Anche qui niente di nuovo: sono ormai in grado di riempire interi scaffali le ricerche sulle caratteristiche strutturali del sistema imprenditoriale, dove si denunciano le criticità di un ordinamento vissuto dalle imprese come un pesante e inefficiente fardello da sopportare. Confindustria già da tempo ha un articolato progetto, Italia 2015, che per ogni settore, dalla pubblica amministrazione alla giustizia, alla finanza, individua quello che non va e, concretamente, quello che si può fare. (3)
Saranno anche cose conosciute, ma è sicuramente importante che al centro dell’agenda ritornino temi come le procedure per la quotazione o (giusto per riprendere una delle tante proposte di Confindustria a chi scrive molto cara) la  specializzazione della giustizia civile: sono possibili tappe di un processo virtuoso di riforma che farebbe in realtà un gran bene a tutti, e non solo al mondo delle imprese.

IL CAVALLO CHE NON BEVE

Prima però di analizzare, discutere e attuare le diverse soluzioni è necessario fare chiarezza su una fondamentale premessa: non dimenticare la storia. Tra il 1998 e il 2004 è stata completamente rivista la disciplina dei mercati finanziari e del diritto societario con l’obiettivo di tutelare gli investitori, mettendo nel contempo a disposizione degli imprenditori un quadro normativo utile per crescere, attraverso modelli organizzativi più elastici ed evoluti, e quindi accedere alle risorse di mercato: qualcuno lo ha dimenticato, ma questa era la premessa in capo alla legge delega per il nuovo diritto societario.
I dati ci dicono che gli imprenditori italiani non hanno colto l’occasione: negli ultimi dieci anni il numero delle società quotate è addirittura diminuito, i tentativi per creare piccoli “mercatini” per le imprese di ridotte dimensioni faticano ad affermarsi;  molti dei nuovi istituti del diritto societario non hanno avuto grande successo. Insomma, si ha l’impressione di un buon abbeveratoio (ormai, se si esclude la parte sul falso in bilancio, la nostra legislazione è considerata in materia fra le più evolute), ma il cavallo si è avvicinato solo con qualche timido sorso.
Mario Deaglio ha dato una spiegazione molto efficace: gli imprenditori italiani “spesso geniali, tra un colpo di genio e l’altro, non amano le strategie lunghe e noiose, assomigliano più a Garibaldi che a Napoleone”. (4) Soprattutto, poi, quando la strategia significa lavare i propri panni in pubblico (a questo serve la borsa) e correre il rischio che amati e consolidati equilibri familiari vengano sconvolti da qualche investitore esterno che giustamente, se mette i soldi, vuole contare. Se così è, non dobbiamo aspettarci miracoli da facilitazioni all’accesso alla quotazione.
Che poi l’altra faccia della medaglia sia la continua sudditanza dal credito bancario e la condanna al nanismo, conta poco. Si è parlato, elegantemente, di resistenze di tipo  “culturale”. Ma, molto più prosaicamente, potremmo parlare di una straordinaria miopia di chi attaccato pervicacemente al proprio giardinetto, si rassegna malinconicamente a sentire il presidente francese dichiarare che Francia e Italia possono felicemente integrarsi perché noi abbiamo il 90 per cento di piccole imprese, mentre alle grandi ci pensano loro.  
La storia insegna, allora, che regole “amiche” contano, ma fino a un certo punto, e che su questo terreno, forse, c’è bisogno di cambiare strategia.
In primo luogo, essere consapevoli che un ordinamento più semplice, attento alla qualità delle norme, che fa della trasparenza di pubblico e privato il suo asse portante, è un ordinamento utile alle piccole e medie imprese, ma è anche un sistema molto più aperto alla concorrenza, soprattutto straniera, e dietro il quale non ci si potrà più proteggere con comode rendite di posizione. In altri termini, opacità, eccesso di burocrazia, lentezza delle procedure, difficoltà a far valere i propri diritti sono anche solide barriere per tutelare il proprio giardinetto. E a volte non si riesce ad allontanare il sospetto che il sostegno alle riforme non sia così entusiastico come ad esempio quello dato alla riduzione del peso fiscale, perché, in fin dei conti, un po’ di opacità e inefficienza conviene.

GENTILI, MA NON TROPPO

Un ordinamento che ci faccia uscire dalla “zona retrocessione” delle classifiche internazionali, realmente funzionale alla crescita, dove tutti possano competere ad armi pari, è un ordinamento che, per quanto possa essere politicamente sconveniente dirlo, deve avere il coraggio di disincentivare la piccola dimensione.
Mi rendo perfettamente conto che questa affermazione se non articolata e approfondita in rapporto ai diversi settori delle politiche di regolamentazione corre il rischio della genericità, ma, rinviando gli approfondimenti ad altra sede per ovvie ragioni di spazio, e guardando ai due incontri di questi giorni, solo due domande.
A prescindere dalle sacrosante esigenze di miglioramento e semplificazione degli standard di ammissione alle quotazioni (giusto il richiamo della Consob alle aree di sovrapposizione di competenze tra autorità e società di gestione del mercato), la politica “dell’abbassamento” dello scalino normativo è veramente in grado di incrementare la platea delle quotate? E, ancora, conviene che accedano ai mercati, sfruttando canali privilegiati, imprese oggettivamente deboli nelle loro strutture organizzative e di governance?
Il 15 marzo la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge sullo statuto dell’impresa che con ogni probabilità riceverà il via libera anche dal Senato. In realtà, nonostante la denominazione “Norme per la tutela della libertà d’impresa”, è un testo prevalentemente incentrato sulla creazione di corsie preferenziali non solo per le piccole, ma anche per le micro imprese. Nessun dubbio sulla necessità di creare le condizioni migliori per l’avvio di nuove attività, ma è altrettanto importante che  questa sia unicamente la base di partenza per intraprendere la strada della crescita, altrimenti il pericolo è quello della riserva indiana. Insomma, riprendendo l’ormai classica espressione di Thaler e Sunstein, Nudge, non sarebbe il caso di una decisa, e forse anche un po’ più rude, “spinta gentile” (così è stato tradotto in italiano) che faccia comprendere agli imprenditori che lo Stato gli è vicino, ma che anche loro si devono dare una mossa? (5) E che cos’è questa, se non sana politica industriale?

(1) Audizione del presidente Vegas del 23 marzo 2011 sul sito www.consob.it
(2) Consob, relazione per l’anno 2009, p. 12.
(3) Sul sito www.Confindustria.it
(4) M. Deaglio, “Rischio Recessione per l’Italia”, su La Stampa del 23 marzo 2010.
(5) R. H. Thaler, C. R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, Feltrinelli, Milano, 2009.

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  1. Michele Giardino

    Non sottovaluterei il peso della questione "culturale", ampiamente confermata dall’insuccesso dei tentativi già fatti. E neppure, realisticamente, l’ovvia maggiore facilità per imprese prospere e in crescita, s’intende, di gestire relazioni con le banche su basi di conoscenza personale molto più che su dati e informazioni trasparenti, rispetto alla necessità di "dire a tutti tutto di sé" che il ricorso al mercato comporta. Ma credo anch’io che, tutto sommato, questo sia ancora un aspetto secondario. La polpa del problema è, come anche in altri essenziali settori, il veleno che paralizza il ceto politico in ogni sua espressione: un micidiale miscuglio tra mancanza di idee, o in altri casi di coraggio, e radicata convinzione che il consenso vada cercato nell’immediato. La politica italiana, lo intuì Lorenzo Ornaghi già all’inizio degli ’80 se non ricordo male, ha scoperto lo "shortermism" molto prima della famelica finanza d’assalto di questi anni. Occorrerebbe ben altra spinta e ben maggiore capacità di aspettare, per incoraggiare davvero la nascita di un "vero" mercato delle imprese. Putroppo, però, più forte la spinta, maggiore l’impopolarità a breve. Come non essere pessimisti?

  2. Mariacristina Prece

    Quali che siano le cause, è un fatto che non si riesce a far crescere le imprese spontaneamente. Sarebbe quindi necessario che ci fosse una vera e propria strategia di politica industriale che, agendo su più fronti, costringa le imprese a crescere dimensionalmente, a incrementare la propria patrimonializzazione e solo così, di conseguenza, a crescere anche sui mercati. Incentivare la nascita di imprese non basta: risolve forse parzialmente il problema occupazionale ma non fa crescere sensibilmente l’economia. Occorre disincentivare in tutti i modi le imprese che vogliono restare piccole, perchè solo imprese più grandi e più forti sono anche imprese culturalmente più in grado di competere. La crescita dimensionale dell’impresa è anche crescita culturale dell’imprenditore e sviluppo per il Paese.

  3. Paolo Mariti

    Non v’ha dubbio che l’Italia si sia data ordinamenti più semplici, attenti alla qualità delle norme, alla trasparenza di pubblico e privato, e che ciò sia di utilità alle piccole e medie imprese e loro crescita. Ma eccezione fatta per, ma non tutte le, imprese del settore meccanico e dei settori più moderni ed avanzati dove la conoscenza non solo tecnica ma anche gestionale e di mercato conta, il grosso delle PIM – almeno nella mia esperienza professionale – è composto da imprenditori avanti nell’età, con alle loro spalle niente se non la solita "praticaccia", che hanno raggiunto patrimonialmente e da un punto di vista familiare un certo equilibrio. Sono molto spesso presenti in queste imprese diverse generazioni d’età, ma quasi sempre le più giovani non hanno seguito alcuna specifica formazione se non quella che, più per brevità che altro, definirei "della gavetta". I consulenti poi non entrano nelle questioni "dimensionali" e di "governance".

  4. Guido Meak

    Chiedo scusa a tutti. Io faccio l’imprenditore, ho 38 anni, non ho figli nè equilibri familiari o patrimoniali da tutelare e guarda caso voglio crescere. Penso tuttavia che in Italia sia impossibile o stupido provarci. A un’azienda per esistere serve un prodotto o un servizio, e fin qui in Italia ancora ci siamo. Poi per crescere serve un bel mercato grosso. E quindi bisogna guardare all’estero, e qui (grazie Erasmus!) qualcuno che guarda fuori tra i giovani c’è. Dopodiché servono dei collaboratori internazionali, ed è qui andiamo a sbattere: a) non si trovano; b) con la regolamentazione/complicazione italiana non si possono assumere. Quindi: c) non si trovano. Questa stava già sul Varian. Fine del gioco. Ora, possiamo dibattere su cosa io intenda quando dico "non si possono assumere": il cuneo fiscale è troppo elavato? I costi di interruzione del rapporto sono troppo incerti? L’impatto dell’IRAP sull’EBT è anch’esso imprevedibile e spesso al di sopra del 100%? Non si sa che contratto usare? etc. Ma il punto è che se un piccolo imprenditore desidera crescere per davvero, non può che andare a creare una società all’estero e lì assumere e fatturare e magari trasferirsi.

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