Lavoce.info

PERCHÉ È COSÌ LENTA LA RIPRESA ITALIANA

La ripresa dell’economia italiana nel 2010 è stata lenta. Per due ragioni. Alcune aziende guadagnano quote di mercato, ma ce ne sono molte altre che stanno perdendo competitività, il che fa salire le importazioni. E i consumi privati e pubblici sono frenati dal cattivo andamento del mercato del lavoro e dalle politiche di bilancio restrittive. Per un migliore 2011, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso. Con piccole imprese che crescono e giovani lavoratori che non vengono tenuti ai margini per troppi anni.

Un tipico esercizio di inizio anno è quello di tirare le somme di che cosa è andato e cosa non è andato nell’anno precedente. Nel caso dei dati macroeconomici, per tirare le somme in modo ufficiale sul 2010 bisogna però aspettare addirittura più o meno la metà di marzo 2011. Solo allora infatti l’Istat fornirà i risultati relativi al Pil del quarto trimestre e alle sue varie componenti. Per il momento l’Istat ha pubblicato – a metà dicembre – i dati relativi all’andamento dell’economia italiana nei primi tre trimestri del 2010. Con questi bisogna lavorare, se si vuole fare un pre-consuntivo di fine anno. È comunque del tutto improbabile che i dati del quarto trimestre cambino in modo sostanziale il quadro che emerge fino a questo momento.

2010, UNA RIPRESA LENTA

Il 2010 è stato un anno di ripresa per tutte le economie dopo l’orribile 2009. In Italia è stato un anno di ripresa lenta, tuttavia, se confrontato con l’ultimo anno in cui l’economia italiana si era risollevata da una fase di rallentamento, e cioè il 2006. La crescita 2010 si fermerà con tutta probabilità a un +1 per cento, più o meno la metà della crescita registrata nel 2006 rispetto al 2005.

Italia, due fasi di ripresa a confronto: 2010 e 2006

  Crescita 2010 sul 2009 Crescita 2006 sul 2005 quote sul Pil 2009
Pil +1.0 +1.9 100,0
Import +7.8 +5.9 24,3
Consumi +0.7 +1.3 59,6
Spesa pubblica -0.5 +0.5 22,0
Investimenti +2.4 +2.6 18,9
-Macchinari +10.1 +5.0 6,8
-Mezzi di trasporto +4.4 +4.1 1,8
-Costruzioni -3.0 +0.6 10,2
Export +6.9 +6.2 23,9

Nota: i dati si riferiscono ai primi tre trimestri dell’anno di riferimento. Ad esempio: “crescita 2010 sul 2009” vuol dire “crescita nel gennaio-settembre 2010 rispetto al gennaio-settembre 2009”.

EXPORT E IMPORT

Oggi come nel 2006, la ripresa è trainata prima di tutto dall’export ma anche dagli investimenti, soprattutto quelli in macchinari e attrezzature, mentre i consumi delle famiglie crescono meno del Pil. Sono dati del tutto normali: sia esportazioni che investimenti ripartono sempre più rapidamente dei consumi dopo le recessioni anche perché, tra le voci del Pil, proprio export e investimenti risentono maggiormente dell’impatto negativo della congiuntura economica. Quindi il dato favorevole di export e investimenti è anche un effetto di rimbalzo.
Le esportazioni vanno bene perché il Pil del mondo è già ritornato a crescere del 4,6 per cento nel 2010, cioè solo di qualche decimo di punto percentuale inferiore alla crescita 2006 (che fu del 5 per cento). La crescita mondiale è tornata quasi a livelli pre-crisi e così anche le importazioni mondiali, dalla qual cosa tutti gli esportatori traggono vantaggio. Siccome però la composizione del Pil del mondo sta cambiando molto rapidamente e l’asse economico si sta spostando da Occidente a Oriente, non era scontato che le aziende italiane potessero beneficiare della ripresa di oggi nello stesso modo in cui ne avevano beneficiato quattro anni fa. E invece l’export di oggi cresce quasi del 7 per cento contro il +6,2 del 2006. Vuol dire che almeno alcune delle aziende italiane sanno farsi valere in giro per il mondo, non semplicemente beneficiando della ripresa mondiale, ma guadagnando competitività e quote di mercato. Tutto ciò induce a ben sperare per il futuro.
Si può tuttavia presumere che i leoni dell’export siano solo una minoranza delle imprese italiane: la crescita 2010, anche se più modesta di quella 2006, porta infatti con sé un vero e proprio boom delle importazioni che crescono oggi dell’8 per cento, mentre crescevano solo del 6 per cento nel 2006. Per crescere esportando bisogna anche importare di più: nel 2010 ciò avviene molto di più che nel 2006. Forse è un segno del rapido processo di modernizzazione dell’economia italiana che sta diventando sempre più globale e sempre più coinvolta in processi di delocalizzazione. Ma è anche un segno della perdita di competitività dei fornitori di servizi locali e dei terzisti manifatturieri che hanno sempre sostenuto le grandi imprese che competevano sui mercati internazionali. I dati sembrano indicare che oggi le grandi imprese, per riuscire a essere vincenti, si rivolgono più spesso a fornitori esteri.

IL FRENO DEI CONSUMI SULLA CRESCITA

La tabella contiene qualche altro elemento di preoccupazione che contribuisce a spiegare perché la crescita di oggi è la metà di quella del 2006. Le brutte notizie vengono dai consumi, sia privati che pubblici. I consumi privati (delle famiglie) crescono oggi solo dello 0,7 per cento (il dato era +1,3 nel 2006). Qui la colpa è del mercato del lavoro: quando la disoccupazione raggiunge l’8,7 per cento della forza lavoro (dato di ottobre 2010) con un parallelo incremento dei disoccupati scoraggiati, e quando le ore di cassa integrazione non accennano a diminuire, non ci si può stupire che la dinamica dei consumi rimanga fiacca. Alla crescita debole dei consumi privati si deve poi aggiungere la riduzione dei consumi pubblici: nel 2006 la spesa pubblica cresceva di mezzo punto percentuale, mentre nel 2010 la spesa pubblica è diminuita di mezzo punto percentuale. Questo processo riflette il contenimento della dinamica della spesa pubblica indotto dalla necessità di riequilibrare i conti pubblici per non caricare ulteriormente il salasso fiscale che colpirà comunque le giovani generazioni. È l’inizio di un processo che continuerà negli anni a venire e che riguarderà tutte le sfere dell’intervento pubblico. Inutile quindi aspettarsi il ritorno dei tempi delle vacche grasse sul fronte della finanza pubblica.

SI PUÒ FARE DI PIÙ?

L’Italia è cresciuta poco nel 2010, sia rispetto agli altri grandi paesi europei (tranne la Spagna) che rispetto all’Italia di qualche anno fa. Il guaio è che la bassa crescita 2010 non è un fenomeno congiunturale. Il Pil dell’Italia cresce poco perché il boom dell’export non crea abbastanza fatturato per le piccole imprese terziste che oggi sono meno competitive di un tempo. E cresce poco perché, con un mercato del lavoro depresso e dualistico in cui chi ha il lavoro se lo tiene e gli altri non entrano mai, la dinamica dei consumi è fiacca. Non ci sono scorciatoie: perché il 2011 sia migliore del 2010, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso e non più un fenomeno per pochi. Con piccole imprese che crescano e giovani lavoratori che non vengano tenuti sull’uscio del mercato per troppi anni. È solo un velleitario desiderio di inizio anno o potrà diventare un obiettivo da mettere in pratica?

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Come cambiano i regimi di protezione sociale dei lavoratori*
Leggi anche:  Quanti sono gli iscritti al sindacato in Italia?

Precedente

BERLUSCONI DEVE ANDARE IN AFGHANISTAN

Successivo

EVOLUZIONE DELLO SPREAD ITALIA-SPAGNA

42 commenti

  1. Francesco Arduini

    Credo, purtroppo, che sia solo un velleitario desiderio di inizio anno. Con una maggioranza costretta a mendicare voti per sopravvivere non possiamo sperare che vengano apportate riforme strutturali al nostro mercato del lavoro e regole nuove che favoriscano le imprese e, di conseguenza, il lavoro. I nodi del sistema Italia, come ha ben capito da tempo Marchionne, sono questi e il manager italo-canadese si sta ergendo ad Alessandro Magno. Come faranno però le imprese che non hanno il potere politico e meditico di Fiat ad avere una legislazione che gli consenta di accrescere la competitività? Complimenti Prof. Daveri per l’analisi sempre puntuale, interessante e facilmente comprensibile.

    • La redazione

      Quello di far capire ai politici dell’importanza di migliorare le condizioni di competitività per tutti e non solo per pochi è il problema dei problemi.

  2. Marcello Battini

    La globalizzazione è ingovernabile per un singolo paese, ma i consumi interni a ciascun paese, al contrario, possono essere stimolati da una corretta politica economica nazionale che non intacchi i saldi di bilancio del settore pubblico, ma che modifichi la distribuzione della ricchezza prodotta, a favore dei soggetti meno capienti, senza passare dai tanti intermediari utilizzati. Sono consapevole che la politica possa avere difficoltà a digerire certe ricette, ma l’alternativa è funesta.

    • La redazione

      Spostare ricchezza in favore dei meno abbienti con più elevata propensione a consumare può essere utile, ma non può avvenire con manovre sul patrimonio.

  3. Aldo Ferreri

    La dinamica dei consumi in Italia è fiacca non solo per le ragioni, condivisibili, elencate nell’articolo di Daveri, ma anche perché esistono categorie di persone che subiscono ogni anno un aumento automatico della pressione fiscale che riduce il loro potere d’acquisto e li rende più poveri. Si tratta dei pensionati (almeno 20 milioni tra titolari e familiari), dei lavoratori non protetti da contratti e dei lavoratori protetti che non riescono ad ottenere aumenti superiori al tasso di inflazione. La ragione è dovuta al “fiscal drag”, che interessa tutti, e al mancato adeguamento all’inflazione delle pensioni superiori a 3 volte il minimo. Non capisco perché gli economisti non parlano mai di questo grosso problema. Che non è solo sociale, ma anche economico. Ed è strutturale. Aldo Ferreri

    • La redazione

      E’ vero, il tema del drenaggio fiscale, cioè l’aumento delle entrate fiscali dovuto all’inflazione, è stato ignorato troppo a lungo dall’economia, forse perché l’inflazione è rimasta bassa per un lungo periodo.

  4. Franco Benoffi Gambarova

    Che la crescita sia elemento essenziale lo dicono tutti, na poi si fermano. Anche il Governo. In una delle mie lettere a Ilsole24ore in dicembre ho lanciato una proposta, caduta nel vuoto: lanciare una Tremonti quater, che non sia un pateracchio come la ter, ma sia invece sul modello della prima e della seconda, i cui effetti furono positivi. Una Tremonti quater che abbia lo scopo di detassare almeno il 50% degli utili reinvestiti in beni strumentali (auto comprese, tanto meglio se ecologiche) ad ampio spettro. Il provvedimento sarebbe a costo zero e servierebbe anche a far emergere il “nero”, per evidenti motivi. Mi auguro che questa proposta sia raccolta da qualcuno, di destra o di sinistra. Franco Benoffi Gambarova

    • La redazione

      Sono favorevole a detassare gli utili, ma non per indurre le imprese a investire di più (i dati dicono che sembra che lo stiano già facendo più dell’anno scorso, e in più lo fanno comprando macchinari). Piuttosto, detasserei per tre anni gli utili delle piccole imprese che assumano lavoratori a tempo indeterminato. Sarebbe una specie di premio per chi non delocalizza. Sto cercando di calcolare il costo di finanza pubblica della proposta a seconda di vari dettagli. Ritornerò prossimamente sull’argomento.

  5. Davide tommasone

    Complimenti per la fotografia chiara dell’ Italia. Vorrei, tuttavia, partire dal commento che lei ha fatto riguardo i dati Istat che non sono aggiornati. Nel mese di marzo 2011 avremo una reale situazione dell’ anno appena passato! Quindi a Marzo 2011 sapremo qualcosa in più delle previsioni e dei ragionamenti che lei ha fatto con molta chiarezza nel suo articolo. Personalmente penso che i dati Istat sono sfasati di circa sei mesi rispetto al reale andamento della vita reale; mi spiego, secondo me i dati da cui parte il suo ragionamento sono già vecchi di quasi un anno. Io sono un imprenditore e le posso dire che gli incassi dei crediti a fine anno sono andati malissimo, molti miei colleghi hanno buttato la spugna e molti altri stanno pensando di fermarsi. La mia azienda fa da banca ai clienti due volte, non solo presto il capitale ma anche la materia prima che e’ ossigeno per le piccole aziende. Le previsioni ed i ragionamenti oggi devono avere un orizzonte temporale molto più lungo, mentre si ragiona sul’ anno passato il futuro e’ già arrivato. Cosa sarà l’ Italia tra 15 o 20 anni, nessuno ne parla, cosa farà mio figlio fra 10 anni.

    • La redazione

      E’ vero, i dati macroeconomici raccontano oggi ciò che le aziende hanno visto da tre a sei mesi prima. Ma ci vuole tempo per ché l’Istat raccolga i dati in modo relativamente preciso. Anch’io sono preoccupato per il futuro delle piccole imprese e delle famiglie dei piccoli imprenditori. Il peggio sarebbe sussidiarle come si faceva una volta. Meglio invece aiutarle a diventare più grandi, così avranno bisogno e assumeranno più lavoratori istruiti e ci sarà una maggiore pressione sociale per far funzionare meglio scuola e università.

  6. Maurizio

    Concordo con il commentatore che non si fida dei dati Istat. Anche io sono dell’opinione che i cali reali sono di gran lunga più elevati di quanto ci dice l’ISTAT. Caro professore in un commento di qualche anno fa mi disse che il limite di sostenibilità del debito pubblico per l’Italia era il 132%. Io vedo che il PIL non cresce ed il deficit non cala. Assisto alla pubblicazione di dati a mio modesto avviso palesemente falsi (i minimi cali delle entrate con milioni di persone in CIG? minimi cali dei consumi con milioni di disoccupati in più?) e sono semrpe più preoccupato. Non vorre un giorno svegliarmi e vedere che i nostri politici hanno fatto come quelli greci che hanno truccato le carte e raschiato anche il fondo del fondo del barile con la complicità di tutti i cani da guardia del sistema: giornalisti, opinionisti, economisti, associazioni di categoria ecc ecc. Mi preoccupa vedere che si incensa Tremonti perché ha garantito la tenuta dei conti pubblici? ma cosa doveva fare di peggio arrivare al 132% in un anno? non mi sembra che la spesa corrente sia diminuita drasticamente come la situazione richiedeva eppure un giornale economico lo ha nominato uomo dell’anno.

    • La redazione

      Non mi ricordo di avere mai parlato in vita mia di un limite preciso alla crescita del rapporto debito/Pil. Anzi tenderei ad escludere di avere fatto una simile affermazione, dato che non saprei come basarla logicamente. Oggi Tremonti viene elogiato perché ha fatto salire il deficit "solo" al cinque per cento circa del Pil nel 2009 e 2010 rispetto al 2,5 per cento del 2008. In effetti in un anno come il 2009 – in cui il Pil è diminuito di 5 punti percentuali – le stime del Fondo Monetario e della Commissione Europea dicono che un aumento di circa due punti e mezzo del rapporto deficit/Pil è fisiologico. Ma in futuro il deficit dovrà scendere in modo che anche il debito prima si stabilizzi e poi cominci la sua discesa. Per questo Tremonti, con il 2011, sta tagliando la spesa pubblica.

  7. alessandra

    Carissimo Prof Daveri, è difficile non essere d’accordo con il suo articolo, ma a questo punto mi sorgono 3 domande: 1) riformare il mercato del lavoro facilitando lespulsione” dei lavoratori meno produttivi aiuterebbe a facilitare l’assunzione e la valorizzazione di quelli giovani? O basta sempre essere uomo, single e con un papi importante? 2) Se i giovani vengono introdotti nel mercato del lavoro senza rete di protezione sociale ora e con un’aspettativa di pensione davvero contenuta per il futuro, chi può generare abbastanza domanda interna per crescere? 3) frena di più la crescita un mercato del lavoro nazionale “ingessato” o il deleveraging globale necessario adesso che la “pandemia” del debito pubblico ha infettato diverse “onorevoli” economie (e non solo quei pezzenti dei PIGS)?

    • La redazione

      Il deleveraging è un problema, ma un governo da solo non può farci niente. Espellere i meno produttivi non farebbe aumentare la domanda di lavoro dei giovani automaticamente. Imprese più grandi richiederebbero lavoratori più istruiti. Quindi, ad esempio, una riforma del mercato del lavoro che butti via l’articolo 18 avrebbe effetti di impatto negativi sull’occupazione ma favorirebbe l’aumento della dimensione d’impresa e quindi poi sulla qualità delle assunzioni. nel frattempo la transizione dovrebbe essere accompagnata da sussidi di disoccupazione generalizzati, il che aiuterebbe a sostenere la domanda interna. In ogni caso, l’export rimane la fonte di domanda e di crescita più credibile per i prossimi anni.

  8. Stefano

    Analisi perfetta, complimenti ad autore dell’articolo per lucidità e cocretezza. Se posso fare una osservazione costruttiva mi sarei aspettato da autore lo stesso spazio dedicato alla diagnosi del sistema per una proposta sul come cercare di risolvere ed uscire dalla palude in cui ci troviamo. Visto che una delle speranze mi sembra di aver capito possono essere l’incremento delle esportazioni cosa ne dite di una politica che le stimoli maggiormente ?

    • La redazione

      Il problema è intendersi su cosa vuol dire "stimolare le esportazioni". Per me vuol dire stimolare le aziende a diventare più grandi. Solo imprese più grandi potranno cogliere le occasioni sui mercati globali. Invogliare le piccole di oggi a esportare di più – ad esempio riducendo il costo del lavoro – senza incoraggiarle a crescere di dimensione non sarebbe molto utile.

  9. luigi saccavini

    Forse in questa fase dobbiamo dare meno rilievo al Pil (che comprende anche spese pubbliche, sovraoccupati, inefficienze) è più alla misura della competitività sul mercato globale. Essendo imperativo l’equilibrio del bilancio, le risorse per investire possiamo trovarle solo risparmiando nella spesa pubblica (fatta per la gran parte di costi del personale). La scelta di non rinnovare il turn over è politicamente più sopportabile ma non fa crescere l’efficienza del sistema, che è una delle palle al piede del nostro paese. Abbiamo da affrontare sfide rilevanti, a cominciare dalla realizzazione di un avanzo primario che consenta la riduzione il debito. La strada forse può essere una destrutturazione ben controllata del mercato del lavoro (più sulla normativa, poco sulla retribuzione) che: aiuti la competitività delle imprese; consenta una riduzione del carico fiscale rilanciando la domanda; permetta di investire in ricerca e innovazione. Dopo si potrà ripartire, solo dopo purtroppo (e non poniamo troppe speranze in una ripresa senza ristrutturare, per i paesi industriali maturi la situazione sarà ancora dura).

    • La redazione

      Il suo suggerimento è di sostituire domanda estera (export) al posto della domanda interna generata dai redditi per esempio dei pubblici dipendenti. E’ ciò che sta già avvenendo. Ma non basta a rilanciare la crescita. E’ l’insufficiente capacità di competere di molte delle nostre piccole imprese terziste a ridurre le possibilità di far crescere il nostro Pil attraverso le esportazioni.

  10. helmut

    Bisognerebbe incominciare a distinguere fra Pil buono e Pil cattivo (improduttivo o peggio di freno). L’impressione è che stia crescendo solo quest’ultimo.

    • La redazione

      Nei momenti di crisi come il 2009 succede così: la crescita del Pil "cattivo" (spesa pubblica) compensa la crescita del Pil "buono" (consumi, investimenti ed export). I tagli di Tremonti per il 2011 sono un passo per riequilibrare queste voci.

  11. BOLLI PASQUALE

    La lentezza della ripresa economica italiana è dovuta ad elementi sfavorevoli di macroeconomia globale ed all’assenza di una politica economica nazionale: l’Italia, di fatto, da diversi anni non è governata.La presenza di un Capo di Governo carismatico ed egocentrico ha creato delle fratture sociali,allo stato, difficilmente sanabili. L’Italia ha necessità di recuperare serenità e pacificazione per fronteggiare il futuro che si presenta sempre più incerto e difficile.Al governo della nazione dovrebbero essere chiamate tutte le forze politiche senza distinzione di appartenenza. Chi ha responsabilità nella guida del Paese non deve essere un illusionista, ma deve far comprendere le gravi difficoltà del momento, perchè tutti, poi,dovranno essere,chiamati a rimboccarsi le maniche. Le illusioni non fanno parte dell’economia! Le politiche di bilancio restrittive sono il risultato di anni di gestione irresponsabile e sciagurate.Quando si vorrà far capire agli italiani che il nostro debito pubblico ci porterà, se non frenato, al fallimento? Quale serenità, allora, può avere l’incauto imprenditore che avvierà un’attività economica? Se il mare è mosso, il porto è l’unica salvezza per non morire.

    • La redazione

      E’ vero, illudere la gente dicendo che tutto va bene contribuisce a peggiorare le cose. Ma non cadremo sotto il peso del nostro debito pubblico perché è proprio la presenza del debito dello Stato che induce le famiglie italiane a risparmiare di più di quanto farebbero. Certo sarebbe meglio avere meno debito pubblico e meno risparmio privato, così consumeremmo di più e vivremmo meglio.

  12. Alessandro

    Bisognerebbe liberalizzare molti settori per far sì che anche il fatturato delle piccole imprese possa crescere. Solo con delle liberalizzazioni massicce si può dare una mano alla crescita del Pil italiano. Tra l’altro le liberalizzazioni terrebbero a bada anche l’inflazione, che sta riprendendo nuovamente la salita. Perché in questo paese mai nessuno ha messo mano alle liberalizzazioni? Tutti si dicono liberali e mai nessuno ha attuato delle riforme liberali in economia.

    • La redazione

      Le liberalizzazioni non farebbero magicamente crescere di più le piccole imprese. Ne farebbero nascere di più ma ne farebbero anche scomparire di più, con un saldo netto probabilmente positivo ma sull’arco di qualche anno. E’ per questo che tutti i governi, con poche eccezioni, sono cauti nell’intraprendere questa strada che tutti gli economisti raccomandano.

  13. Paolo Rebaudengo

    Caro Prof. Daveri, trovo molto utile la sua analisi. Mi sembra tuttavia che tra gli indicatori utilizzati nel raffronto del 2006 con il 2010 per analizzare la modestia dell’attuale ripresa (se mai si può realmente parlare di ripresa) occorrerebbe aggiungere quello occupazionale. La crescita della disoccupazione e particolarmente della inoccupazione giovanile è poco compatibile con una duratura ripresa. E non lascia certo ben sperare la presenza di una enorme fascia di popolazione “inattiva” (nè disoccupata nè occupata), pari a 15 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni, per quanto si valuti che un 10% di essa è semplicemente scoraggiata dopo una inutile ricerca di lavoro.

    • La redazione

      Giusto. Per la verità nell’articolo accennavo brevemente al problema posto dal peggioramento del mercato del lavoro e alle sue implicazioni per la debole dinamica dei consumi.

  14. giulio

    Anche se avvenisse, la ripresa converrebbe solo alle aziende, non ai lavoratori Affermazione folle? No, semplice constatazione: con le attuali regole del mercato del lavoro, la aziende assumerebbero più lavoratori, ma sempre precari e sottopagati (perché la Legge permette queste condizioni). Quindi una (ipotetica, ancorché attualmente inesistente) ripresa economica, alle aziende frutterebbe ricchezza, ai lavoratori un aumento di prezzi al consumo, non di salari…

    • La redazione

      Mah. Veramente una ripresa con creazione di posti li lavoro converrebbe anche ai cassintegrati e a chi il lavoro oggi non ce l’ha. Ed è tutt’altro che ovvio che la ripresa in Italia porti con sé un ulteriore aumento dei prezzi, dato che la capacità produttiva utilizzata nel nostro paese è ancora di circa dieci punti inferiore al suo livello pre-crisi. Uno scenario non improbabile potrebbe essere che l’aumento di occupazione a parità di salari indotto dalla ripresa farebbe crescere gli euro in tasca alle famiglie italiane senza provocare una rilevante fiammata d’inflazione.

  15. Giancarlo

    E’ possibile conoscere qual’è il prelievo fiscale dello Stato italiano sulle attività delocalizzate?

    • La redazione

      Direi zero. Nella maggior parte dei casi gli Stati tassano i redditi nel luogo dove si formano. Per questo le multinazionali spostavano artificialmente i loro profitti in Irlanda.

  16. Sergio

    La minore crescita italiana non è un fatto di questi ultimi anni e, quindi, le spiegazioni non possono limitarsi ad eventi congiunturali. Il richiamo che viene fatto nell’articolo tra la diversità della ripresa delle esportazioni e delle importazioni meritebbe un approfondimento. Non è una questione solo di PMI: lo stesso andamento della produttività oraria del lavoro in Italia andrebbe spiegata come parte dello stesso fenomeno e, possibilmente, senza ricorrere a termini come “fannulloni”.

    • La redazione

      Non è solo una questione di PMI, ma per me è soprattutto una questione di PMI: il negativo andamento della produttività nel nostro paese dipende soprattutto dalla sproporzionata presenza di piccole imprese che solo in rari casi raggiungono livelli di efficienza confrontabili con quelli delle grandi imprese. Le piccole fanno del loro meglio ma quasi inevitabilmente pagano salari più bassi, investono una frazione più piccola del loro fatturato e non spendono in ricerca e sviluppo.

  17. STEFANO MONNI

    Credo che il problema della attuale crisi, certo non tipica di questi ultimi anni, sia da attribuire allo stato dei consumi, pubblici e privati. Si dovrebbero in particolare trovare delle soluzioni che possano ridare impulso a tali consumi e tale iniziativa, in un momento di aspettative negative da parte dei privati, dovrebbe venire dallo Stato. Il problema cruciale però credo sia di natura sovranazionale tenuto conto che i vincoli imposti con riferimento al livello di inflazione non consentirebbero una agevole manovrabilità della spesa pubblica. In fin dei conti un po’ di inflazione non fa male in casi particolari, soprattutto se è dovuta ad un surriscaldamento dell’economia. Se non si mette mano presto ad una soluzione il rischio è comunque un aumento dell’inflazione (basta vedere come è aumentato il prezzo del greggio in questi anni) ma in condizioni di crisi economica (ovvero stagflazione…..speriamo proprio di no!) Sarebbe forse il caso di rispolverare un pochino gli insegnamenti di un grande economista del passato, J.M. Keynes, che in passato, io credo, sono stati applicati in modo strumentale e spesso distorto.

    • La redazione

      Forse altrove. Ma come fa uno Stato con il nostro, con il 120 per cento di debito pubblico e una spesa del 50 per cento in percentuale del Pil, a dare un impulso alla domanda?

  18. Cosimo Benini

    Nell’analisi, largamente condivisibile, non si accenna al tema della leva fiscale, al sommerso, all’evasione, al riequilibrio del carico fiscale a vantaggio del lavoro autonomo (pagare meno, pagare tutti), all’efficacia dell’amministrazione finanziaria nel contenere il tasso di evasione e, più in generale, alla mancanza di riforme strutturali del settore pubblico che portino ad una amministrazione di servizio e non di regolamentazione. Si può creare domanda interna, rimodulando il carico fiscale, ma anche rimodulando la spesa pubblica secondo un principio qualitativo (in termini di valore aggiunto), ben diverso dai tagli lineari di scuola tremontiana. Col primo strumento si libera reddito, col secondo si taglia la spesa improduttiva. Infine occorre intervenire sui costi fissi dei servizi, scardinando il sistema corporativo delle professioni, il monopolio postale e colpendo i settori protetti, banche e assicurazioni, tassando la rendita immobiliare e finanziaria, senza colpire i piccoli proprietari e risparmiatori.

    • La redazione

      Tutto giusto. I tagli lineari di spesa di Tremonti sono il prodotto della non volontà del governo di affrontare i problemi davvero alla radice. Ad esempio si è scelto di ridurre le risorse a tutte le università, anziché chiudere o tagliare i soldi a quelle dove non si fa ricerca e dove si fa male la didattica. I tagli qualitativi che lei suggerisce sono politicamente più difficili da far digerire all’elettorato.

  19. Pietro

    Quando lei parla di far diventare le Pmi più grandi come intende farlo? Crede che sia possibile con un governo immobile sotto tutti i punti di vista e per di più senza politica industriale? Infine, la mia paura di vedere l’Italia caratterizzata nel futuro da quella eterogeneità strutturale che continua a essere vigente in America Latina è solo frutto del mio pessimismo?

    • La redazione

      La polarizzazione tra imprese grandi e imprese piccole non è un rischio è già in atto. Ma non è facile cambiare una caratteristica strutturale del nostro sistema produttivo. Non c’è la bacchetta magica. Si può però favorire fiscalmente le aggregazioni tra imprese, favorire l’innovazione dei gruppi di imprese, migliorare l’accesso al credito bancario e al private equity.

  20. Franco Benoffi Gambarova

    La ringrazio per la risposta che condivido solo in parte. In particolare perchè il provvedimento da Lei auspicato dovrebbe essere solo a favore delle imprese medio-piccole? Forse perchè le imprese grandi sono di serie B?

    • La redazione

      L’ideale sarebbe ridurre l’imposta sulle società a tutti. Ma ci sono vincoli di bilancio. Bisogna quindi scegliere. Le imprese grandi non sono di serie B, ma creano già più posti di lavoro a tempo indeterminato delle piccole. Quindi incentivare anche loro è meno importante e sarebbe molto costoso. Inoltre presumibilmente le piccole tendono a dichiarare meno utili di quelli veri. Una riduzione o azzeramento per tre anni dell’imposta per le piccole imprese che creano posti di lavoro a tempo indeterminato sarebbe anche un modo di premiare chi vuole emergere dal sommerso, garantendogli un periodo di sconto fiscale.

  21. bob

    Prof Lei dice testualmente:”Certo sarebbe meglio avere meno debito pubblico e meno risparmio privato, così consumeremmo di più e vivremmo meglio.” Io le rispondo che questa sua affermazione è pura follia. Se lo immagina il nsostro Paese con le famiglie indebitate come in USA o Inghilterra?

    • La redazione

      Non mi auguro che le formichine italiane diventino come le cicale americane.
      Mi spiego meglio. Risparmiare non è un bene in sè. il bene in sè è consumare, che vuol dire godersi la vita. Se risparmiamo lo facciamo perchè dobbiamo. dobbiamo pensare al futuro: chi oggi lavora risparmia perchè sa che non lavorerà più domani oppure perchè ha degli eredi o delle persone anziane da mantenere. quindi risparmiare un po’ si deve, ma è inutile risparmiare troppo. Quello che volevo dire è che quando lo Stato non risparmia, anzi si indebita, crea un obbligo, una prospettiva di tassazione futura per i cittadini. a questo punto i cittadini si preoccupano e risparmiano più di quello che avevano preventivato. di questo risparmio aggiuntivo si potrebbe fare a meno. tutto qui.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén