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Tra maggioritario e proporzionale

E’ sbagliato trarre indicazioni meccaniche sui comportamenti elettorali alle politiche dalle consultazioni europee, dove si vota con un sistema diverso. E tornare al proporzionale, come alcuni auspicano, sarebbe un grave errore per la politica economica. Non si può negare però che il maggioritario all’italiana non ha risolto la questione dell’influenza dei piccoli partiti e del potere di veto che questi esercitano all’interno delle coalizioni. Ma forse tutto dipende dal fatto che non di maggioritario puro si tratta.

I risultati della competizione elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo saranno sicuramente al centro della discussione politica nei giorni a venire, con gli esponenti politici impegnati a dimostrarci come, misteriosamente, siano riusciti a vincere tutti contemporaneamente.

Invece di lasciarci trascinare in questo dibattito, è utile tentare di ragionare pacatamente su che cosa i risultati ci insegnano, in particolare sul rapporto tra sistema elettorale, organizzazioni partitiche e politiche attuate.

Confronti impropri

Per esempio, molti commentatori insisteranno (lo stanno già facendo) sul risultato negativo che i principali partiti dei due poli (Forza Italia da un lato e Uniti per l’Ulivo dall’altro) hanno avuto rispetto ai propri alleati minori, magari basandosi su un confronto con i risultati delle politiche del 2001.
Ma questo è sbagliato, per la semplicissima ragione che nelle politiche si vota con un sistema (largamente) maggioritario e nelle europee con uno strettamente proporzionale.
È del tutto ovvio che con un sistema proporzionale (oltretutto per un voto “meno importante”, com’è sentito quello europeo), gli elettori si siano sentiti liberi di scegliere la lista che più li rappresentava, piuttosto che votare strategicamente, ponendosi cioè il problema di evitare l’elezione del candidato meno apprezzato. Come sarebbe invece sicuramente successo con un sistema maggioritario.
In altri termini, il proporzionale conduce necessariamente alla frammentazione della rappresentanza politica e avvantaggia necessariamente chi persegue questa frammentazione. Sarebbe pertanto errato trarre dalle consultazioni europee indicazioni meccaniche sui comportamenti elettorali alle politiche, dove si vota con un sistema diverso.

Voglia di proporzionale

Sottolineare questo punto, per certi aspetti ovvio, è importante. Molti infatti approfitteranno dei risultati di queste elezioni per sottolineare l’irriducibilità degli umori politici degli italiani al bipolarismo, e per invocare di conseguenza un ritorno a un sistema elettorale proporzionale anche nelle consultazioni politiche, in quanto più in grado di rappresentarne l’eterogeneità nelle preferenze politiche. E in realtà è già in moto una pericolosa coalizione in Parlamento, trasversale tra gli schieramenti politici, che sta lavorando attivamente in questa direzione, approfittando degli spazi consentiti dal dibattito sulla riforma costituzionale.

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Ma questo sarebbe un grave errore, almeno sul piano della conduzione della politica economica. Esiste ormai un’ampia e consolidata letteratura empirica internazionale che dimostra come sistemi elettorali proporzionali conducano a un deficit di governabilità: governi minoritari o formati da ampie coalizioni sono meno in grado di reagire rapidamente alle circostanze avverse. Inoltre, per il gioco dei favori e dei veti reciproci tra partiti, tendono a generare maggiore spesa pubblica, più pressione fiscale, più deficit, più debito e più inflazione.
Del resto, anche senza scomodare l’analisi economica, basta ricordarsi come era l’Italia della Prima Repubblica per guardare con spavento all’ipotesi di un ritorno al proporzionale.
Tuttavia, va anche riconosciuto che l’attuale sistema maggioritario italiano, imposto a forza di referendum nel bel mezzo di una drammatica crisi politica e economica, non si è dimostrato in grado di mantenere le proprie promesse.

Abbiamo sì avuto maggioranze più stabili e governi più duraturi. Ma, eccetto che per brevi periodi e in circostanze eccezionali, queste maggioranze non si sono dimostrate sufficientemente coese e omogenee al proprio interno da perseguire con efficacia politiche univoche. In particolare, nonostante il maggioritario, non si è ridotto in misura sostanziale né il ruolo né il numero dei piccoli partiti. Avere maggioranze stabili, che durano magari un’intera legislatura, ma che sono incapaci di fare alcunché perché bloccate dai veti interni tra i vari partiti nella coalizione di governo (una descrizione abbastanza precisa della situazione del governo italiano in questa seconda parte della legislatura) non sembra francamente un gran miglioramento rispetto alla situazione precedente. Dobbiamo dunque concluderne che gli italiani sono geneticamente condannati alla frammentazione politica, indipendentemente dal sistema elettorale?

Una transizione incompleta

Forse, no. Forse il problema è semplicemente che la transizione al maggioritario non è stata fatta in misura adeguata e sufficiente. Intanto, il sistema non è completamente maggioritario: con il meccanismo dei residui, i seggi vengono assegnati per il 25 per cento sulla base del proporzionale. Alcuni sostengono (1) che appunto questa residua quota di proporzionale sia l’origine di tutti i problemi, in quanto spinge i partiti all’interno di una coalizione a differenziarsi sul piano delle politiche, per farsi notare dai propri elettori. Viceversa, un sistema maggioritario puro li spingerebbe a scontrarsi sulla divisione dei seggi, ma li manterrebbe compatti sulle politiche da perseguire.

Inoltre, il maggioritario italiano per il Parlamento nazionale è a turno unico. Sono molti a ritenere che invece un sistema a doppio turno, come quello in vigore per i comuni italiani di maggiori dimensioni e altri enti locali, consentirebbe agli elettori di esprimere le proprie preferenze nel primo turno, per poi compattarsi su un unico candidato o un’unica coalizione nel secondo. Del resto, l’evidenza empirica disponibile sui comuni italiani sembrerebbe suggerire che le coalizioni vincenti riescono spesso a fare a meno dell’istituto “dell’apparentamento” delle liste previsto al secondo turno (e che potrebbe comunque garantire un ruolo alla forze minori), così nei fatti isolando i partiti e i candidati più estremi dal governo.
È doveroso sottolineare che questi effetti dei diversi sistemi elettorali sul sistema politico e sulle politiche adottate non sono stati finora studiati in modo rigoroso, specialmente in Italia.

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Le nostre conoscenze sono dunque limitate.
Ma prima di decidere di buttare a mare il sistema maggioritario, in quanto geneticamente contrario alle preferenze degli italiani, è opportuno fermarsi e riflettere.

 

(1) Vedi Tabellini, G. e A. Merlo, “Sistema elettorale e regole di governo: alcune considerazioni sulla riforma della costituzione in Italia”, mimeo Università Bocconi, aprile 2004.

 

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Sommario 9 giugno 2004

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La fine delle illusioni

10 commenti

  1. Fulvio Astori

    Se fossimo in una società perfetta il migliore dei sistemi sarebbe il proporzionale puro, l’unico in grado di consentire a tutte le minoranze, che rappresentano la vera ricchezza di una società civile, di essere adeguatamente rappresentate e di offrire il migliore contributo al proresso della nazione.
    Ma purtroppo questo bel mondo è crollato quando alcuni piccoli (Craxi l’esempio più evidente) hanno sostituito la ricchezza della minoranza con il ricatto e la rendita dovuta a chi, essendo determinante nella sua piccolezza, può imporre il suo interesse. La Lega ha imparato molto bene questa lezione.
    Per questo io vorrei tanto provare con un maggioritario puro: tanti eletti, tante circoscrizioni. La correzione proporzionale affidata al meccanismo del doppio turno. E sarebbe la garanzia di radicare l’eletto alla propria circoscrizione, il vantaggio per l’elettore di sapere chi è il proprio riferimento, indipendentemente dall’idea politica. Un maniera quindi per avvicinare da un lato le persone alla gestione della cosa pubblica, e dall’altro per svelenire dall’ideologismo fine a sé stesso. L’elettore saprebbe a chi rivolgersi, e l’eletto maggiormente consapevole saprebbe di dover dare conto del suo operato a tutti quelli che rappresenta, non solo i suoi elettori, ma a tutta una circoscrizione.
    Inoltre sarebbe molto comodo uniformare tutte le modalità di voto (camera, senato, europee, amministrative) ora tutte differenti, con l’assurdo che una modalità di tracciare il proprio voto in maniera corretta su una scheda diventa completamente sbagliato su una scheda destinata a una diversa consultazione.
    Tutto questo nella speranza che l’Italia guarisca, e che un giorno si possa tornare al proporzionale senza temerlo.

  2. roberto buttura

    Trovo completamente ridicole le affermazioni sul rapparto tra sistema elettorale e conduzione dell’economia. L’Italia non è il solo paese che ha avuto sistemi elettorali proporzionali. La Germania ne è un esempio eppure in questi 60 anni è diventata un paese prospero. Domenica per le europee si è votato con il proporzionale con tre preferenze e non sembra che nessuno si sia scandalizzato.
    Ad ognuno il suo mestiere chi fa economia non pensi automaticamente di essere un esperto istituzionalista.

    • La redazione

      Da almeno una ventina di anni gli economisti stanno facendo grossi sforzi per endogenizzare i comportamenti dei governi, cercando di capire come i diversi sistemi elettorali, le procedure legislative, i rapporti tra i diversi poteri dello stato influenzano l’evoluzione delle politiche, dando incentivi diversi ai governanti. Si tratta forse del campo dell’economia moderna dove più attiva è stata la ricerca e dove i progressi raggiunti sono stati maggiori. Naturlamente, gli economisti studiano questi problemi usando i propri strumenti (modelli, analisi empiriche), ma osservi che ormai in misura sempre maggiore quegli stessi strumenti vengono adottati dagli scienziati politici. E il corpus di conoscenze accumulato è ormai davvero considerevole. Si informi.

      Massimo Bordignon

  3. Riccardo De Giuli

    Credo che il risultato più interessante di queste elezioni europee sia la nascita di una destra, per ora ancora solo cattolica e popolare (e poco laica e liberale), ma almeno indipendente dalla figura (positiva o negativa che sia) centrale di Berlusconi.
    Contemporaneamente la sinistra ha finalmente fatto la sinistra, assumendo posizioni (sulla guerra per es.) sostanzialmente differenti da quelle del governo. Forse questi sono effetti che con un sistema elettorale maggioritario non si sarebbero ottenuti.
    Non solo. La necessaria corsa al centro e il conseguente uniformarsi dei programmi e dei linguaggi dei due schieramenti politici porta inevitabilmente alla disaffezione al voto. Non ci si può poi lamentare che vanno a votare in pochi quando i due schieramenti propongono soluzioni sostanzialmente uguali. In particolare questo sistema non può funzionare in paesi, come il nostro, in cui la partecipazione al momento decisionale avviene solo attraverso la politica. Nei sistemi anglosassoni esiste una forte tradizione associazionistica attraverso la quale si può fare Politica vera e propria. Da noi no. Per questo ipotizzare un elettorato attivo sotto il 50% degli aventi diritto (conseguente nel lungo periodo all’utilizzo del maggioritario) significherebbe avere una Democrazia zoppa.

  4. Alex Zoppi

    Carissimo Professore,
    vorrei fare alcune considerazioni sul suo articolo:
    – ammesso che il sistema proporzionale sia meno “efficiente” (con questo sistema dal dopoguerra agli anni ’90 qualche risultato come nazione l’abbiamo pur raggiunto), senz’altro è più democratico. Sartori (così mi sembra) sul Corriere dopo le ultime politiche (2001) commentando l’alto astensionismo (~ 30% mi pare) disse che non si doveva avere paura di questo, che era un dato naturale, fisiologico, connaturato al sistema maggioritario, il quale tende ad escludere dalla rappresentanza le ali più estreme e citava come esempio gli USA, UK, ecc. dove l’astensionismo raggiunge anche il 50%. Per me non è assolutamente accettabile che un sistema ammetta (anche se in modo implicito) già in partenza l’esclusione di una fetta (e che fetta) di popolazione dalla rappresentatività (come dire: se non stai con la maggioranza son fatti tuoi).
    – se le idee (e gli obiettivi) delle persone sono diverse non sarà un diverso sistema elettorale a farle sparire magicamente: la dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi. L’esperienza degli ultimi dieci anni conferma, ovviamente secondo il mio discutibilissimo punto di vista, che non è il sistema elettorale ma le persone che fanno la differenza; la litigiosità e l’instabilità delle ultime due legislature sono simili, ma i risultati no: l’ingresso nell’euro, la riduzione strutturale del deficit, una riforma consistente del mercato del lavoro, una semplificazione della P.A.
    Cordialmente, Alex Zoppi

    • La redazione

      I tre commenti sollevano punti simili, per cui mi limito a rispondere una sola volta. Un sistema elettorale deve rispondere a due esigenze; garantire la rappresentanza in Parlamento delle preferenze politiche della collettività; e garantire la governabilità del paese, intendendo con questo la capacità di eleggere esecutivi in grado di affrontare i problemi e di prendere decisioni. Il sistema proporzionale risponde meglio alla prima esigenza; il maggioritario meglio alla seconda. La mia impressione (e quella della maggior parte dei commentatori, economisti o meno) è che il Paese richieda più governabilità che rappresentanza in questo momento, da qui l’appoggio al maggioritario. Penso anche che un maggioritario a due turni potrebbe coniugare meglio entrambe le esigenze di uno a turno unico; di qui il mio appoggio a quest’ultimo sistema.
      Inoltre, penso anche (confortato, raro caso in economia, da una evidenza empirica comparata davvero robusta) che il Paese avrebbe accumulato meno guai economici negli anni ’80 se il sistema fosse già stato di tipo maggioritario (per cui ce la saremo anche “cavata benino”, ma avremmo potuto cavarcela meglio). Infine, credo anch’io che il personale politico del centro-sinistra fosse migliore di quello attuale; ma notate, che passata l’emergenza Euro, anche i governi di centro-sinistra sono finiti in un’impasse decisionale alla fine della passata legislatura, ragione non piccola della loro successiva sconfitta nel 2001.

      Grazie dei commenti.

      Massimo Bordignon

  5. Alex Zoppi

    Carissimo Professore,
    grazie per la risposta, vorrei aggiungere solo un paio di cose.
    Premetto che sono pienamente d’accordo con lei sul maggioritario a doppio turno (viene eletto il meno “sgradito” e quindi più rappresentativo) e sul fatto che anche il centrosinistra, passata l’emergenza, sia tornato poi “al teatrino della politica”.
    La questione principale però secondo me è questa, e su questa non mi pare abbia risposto: Lei ritiene che nel maggioritario sia implicito un deficit di democrazia? Io sì. Anche se nel caso specifico (Italia attuale) una maggior governabilità è auspicabile, in generale il maggioritario tende ad escludere una (gran) parte dell’elettorato, e questo per me rimane difficile da accettare.
    Cordialmente, Alex Zoppi.

  6. Riccardo Mariani

    La maggiore rappresentatività che garantisce il sistema elettorale proporzionale è spesso sfociata in ampie coalizioni con sempre più numerosi appetiti da soddisfare. A fronte di ciò è presto emersa una classe di outsiders esclusi da ogni concertazione. Non sarà un caso se dove vige il sistema elettorale maggioritario (e magari un sistema di governo presidenziale) la presenza dello stato nella società è più contenuta (Persson-Tabellini AER ). In fondo, anche grazie a questo effetto collaterale, il sistema recupera un ruolo alle minoranze sacrificate nelle elezioni e tutto ciò senza ricorrere alla rappresentanza politica (ovvero pluriannuale, su tutte le materie e senza mandato). Ritengo che una difesa del maggioritario in linea con il suo spirito debba, in primo luogo mantenere le posizioni acquisite senza concessioni al doppio turno, in secondo luogo compensare quelle virtù di cui il sistema è carente delimitando le materie di competenza del governo centrale (si potrebbe rafforzare questo effetto che già si produce naturalmente tramite l’ attuazione di un profondo federalismo sia fiscale che istituzionale). Ho come l’ impressione che una soluzione del genere non sia gradita a chi nell’ establishment perora un ritorno al proporzionale. Ma costoro è probabile che siano più preoccupati di rendere protagonista il loro piccolo partito più che la società civile.
    Cordiali saluti.

  7. Mirco Chiesi

    Maggioritario o proporzionale? La domanda sembra suscitare una quasi necessaria divisione su due fronti.. quando invece il fine che si vuole raggiungere è, mi pare, il medesimo ovvero governabilità e stabilità dell’esecutivo (due fattori che non vanno necessariamente a braccetto, vedi le ultime due legislature). Ora, credo che nel dibattito sorto attorno all’articolo di Bordignon, si sia perso un punto di vista fondamentale: quello della tradizione culturale del nostro paese. NOn scordiamoci che la nostra è una democrazia ancora giovane che, sorta sulle ceneri del secondo conflitto mondiale, ha tentato di muoversi nel solco della grandi democrazioni liberali, attraverso la partecipazione ai processi decisionali (parlamento) dei cittadini, organizzatisi in movimenti/partiti. Se ci scordiamo di questo allora finiamo col fare una legge contro i cittadini e non a loro favore. Da economista qual sono non mi voglio improvvisare giurista o altro ma mi pare che il nodo fondamentale si giochi anche e sopratutto nella fase applicativa della legge elettorale stessa. Quella attuale per le politiche è zoppa come si è detta e con quota proporzionale, calcolo dei resti, liste civetta, uninominalità dei collegi e altro fa un gran pasticcio, vanificando, io credo, lo spirito maggioritario retrostante ad essa. Ebbene, perchè allora non salvare sia la nostra tradizione culturale partecipativa/associazionistica sia l’esigenza di governabilità/stabilità? Lo si può fare credo anche attraverso il principio proporzionale, mediante una una ridefinizione dei collegi, uno sbarramento al 6% (più alto del 5 data la tendenza alla frammentazione elettorale) assieme a un premio di governabilità che garantisca la durata naturale della legislatura. Questo è del resto ciò che si è realizzato, fattore più, fattore meno, con le regionali e le provinciali. E, tanto per aggiungere altre considerazioni circa la governabilità, perchè non ridurre il numero dei parlamentari, differenziale il nostro bicameralismo e tanto per semplificare, fare un’unica legge elettorale per tutte le votazioni, indipendente dalla loro natura???
    L’esempio della Germania, che ha vissuto una storia simile alla nostra durante il ‘900, è sotto gli occhi di tutti. NOn affidiamoci ciecamente ad essa ma applichiamo quel modello al nostro specifico contesto nazionale.
    Grazie a tutti!

  8. Giorgio Pedrotti

    Il sistema elettorale proporzionale ha consentito all’Italia di affrontare (ed uscirne relativamente bene) gravissime crisi economiche e sociali negli ultimi 50 anni: la ricostruzione del dopoguerra, il ’68 e le lotte operaie, il terrorismo (fine anni 70 inizio anni 80). L’apparente instabilità interna era in realtà fortemente compensata dalla “stabilità” esterna, rappresentata dai due blocchi USA – URRS.
    Dieci anni di “maggioritario” (1994-2004) e di governi relativamente più stabili rispetto a quelli della prima Repubblica non sembrano metterci in grado di affrontare le sfide sociali ed economiche apertesi dopo la “caduta del muro”:
    – l’affrancamento del sistema economico e bancario dall’assistenzialismo statale (dal caso Fiat, all’Alitalia, passando per Cirio e Parmalat e le cosiddette privatizzazioni);
    – la trasparenza dei mercati e la tutela dei consumatori e degli investitori;
    – la modernizzazione dell’apparato pubblico e la semplificazione della legislazione;
    – garantire standard di sicurezza cui bene o male gli italiani sono stati abituati (dalla sanità alla previdenza);
    – la globalizzazione;

    Forse non è così scontato che il maggioritario (anche quello a doppio turno) garantisca, nel nostro Paese, la formazione di un sistema bipartitico sul modello anglosassone/americano. Per ora ha prodotto il bipolarismo, entro il quale convivono le precedenti culture politiche (senza, forse, quella socialista che molto aveva contribuito, a partire dagli anni ’60, al rinnovamento del Paese). Che tutto questo dipenda dai piccoli partiti, che impedirebbero ai grandi di governare, mi sembra ancora da dimostrare. Forse dipende dall’assenza di grandi partiti (DC e PCI, fino agli anni ’80 inoltrati, rappresentavano quasi il 70 % dell’elettorato, oggi si considera grande un partito che raggiunge il 20%) e da modeste leadership.
    Se questo è verosimile converrebbe chiedersi se aver cacciato pressoché in blocco la vecchia classe politica e cambiato il sistema elettorale (anche sotto l’impropria spinta di “Mani pulite” – un conto è mettere in galera i ladri, un conto è pretendere di cambiare un sistema politico per via giudiziaria) sia stato opportuno e se non sia stato illusorio pensare che per uscire dal pantano della corruzione e delle tangenti bastassero solo la riforma elettorale e il “tintinnar di manette”. E’ sufficiente concentrarsi (ed affidarsi) sulle regole della rappresentanza dimenticando o quasi tutto il resto. L’attuale governo dispone di una maggioranza di circa 100 deputati alla Camera, ciononostante ha dovuto fare spesso ricorso al voto di fiducia per far passare le proprie leggi, ed i condizionamenti che subisce non dipendono dai seggi attribuiti in quota proporzionale: Lega e UDC non hanno un solo deputato assegnato sulla quota proporzionale.

    Personalmente sono abbastanza indifferente al sistema elettorale, anche se ritengo importante assicurare un buon equilibrio fra esigenza di governabilità e rappresentanza di tutte le culture politiche. Sono tuttavia molto più preoccupato dal fatto che con la scomparsa del sistema dei partiti della prima Repubblica (con i suoi molti difetti, ma anche con qualche pregio) sia venuto meno l’unico strumento di vera selezione (e formazione) di classe politica. E’ stato dimostrato, in molti casi, che leadership autorevoli riescono a governare anche in presenza di maggioranze deboli, ma non si danno casi di buon governo con pessime leadership, anche con forti maggioranze.

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