Si discute molto dei poteri attribuiti al primo ministro, ma i veri difetti della proposta del governo non sono nei pesi, quanto nei contrappesi, nel mancato rafforzamento delle garanzie e nello statuto dell’opposizione. Se al premier non viene riconosciuto il potere di scioglimento anticipato, si rafforzano, invece di ridurli, i poteri di veto dei partiti minori all’interno delle coalizioni. Tanto più che la norma antiribaltone li rende determinanti per la sopravvivenza della maggioranza. Seri problemi anche per il Senato, che sembra orientarsi verso una composizione mista.

La proposta sul premierato contenuta nel disegno di legge del Governo non è affatto male sui pesi (e su questo ricalca da vicino le proposte dell’Ulivo nella scorsa legislatura), è però reticente sui contrappesi, sul rafforzamento delle garanzie e sullo statuto dell’opposizione.

I giusti pesi

Il primo ministro è nominato dal Capo dello Stato “sulla base dei risultati delle elezioni della Camera”.
Nei casi di morte, impedimento permanente e dimissioni spontanee, giustamente il Capo dello Stato valuta se è possibile un nuovo Governo, sempre sulla base dei risultati elettorali per la Camera, o scioglie la stessa.
L’attuale ambiguità del potere di scioglimento anticipato, condiviso tra Quirinale e Palazzo Chigi, viene correttamente risolta a favore del premier: egli presenta la richiesta, di cui “assume la esclusiva responsabilità” e il Capo dello Stato emana il decreto. La soluzione individuata è molto simile a quella proposta dall’Ulivo alla Bicamerale D’Alema. L’ambiguità sullo scioglimento è stata uno dei principali impacci della transizione. Il fatto che l’emanazione sia atto dovuto non significa che il Capo dello Stato non abbia alcun margine: la sua responsabilità nel caso di alto tradimento e attentato alla Costituzione gli consentirebbe la non emanazione (ma non più un vaglio politico) in alcuni situazioni-limite.

Sui pesi, l’unico punto debole (non da poco) è la previsione che in caso di sconfitta parlamentare su una proposta di priorità del Governo o su una mozione di sfiducia vi sia lo scioglimento automatico. È una rigidità eccessiva. Non a caso, ispirandosi al modello svedese, i precedenti progetti sul premierato presentati a inizio legislatura (Tonini e Malan) prevedevano in tali casi che il primo ministro potesse scegliere tra dimissioni e scioglimento.

Ma mancano i contrappesi

I contrappesi sono invece dimenticati, se si eccettua un vago rinvio ai regolamenti parlamentari.
Non si distingue chiaramente lo status della minoranza più grande (l’opposizione in senso proprio, quella che si candida a rimpiazzare il Governo) dalle ulteriori minoranze (i gruppi minori che si pongono fuori dalle coalizioni).
La verifica dei poteri e le commissioni di inchiesta restano nelle mani delle maggioranze parlamentari. E così via.
Dove sono finite le proposte incisive elaborate su questi aspetti da Berlusconi e altri alla Bicamerale, quando erano all’opposizione?
Ora, però, invece di completare i pesi coi contrappesi, i due poli sembrano entrati in una sindrome che li porta a fare sconti sui pesi, finendo per rafforzare quei poteri di veto che si volevano ridurre.
Facendo da sponda all’Udc, l’Ulivo ieri ha dimostrato ancora una volta un timore eccessivo per il potere di scioglimento, che non ha senso nelle normali democrazie parlamentari. Eppure, i giornali di sinistra sono (comprensibilmente) pieni di soddisfazione perché martedì un Governo di socialisti, comunisti e indipendentisti nascerà in Catalogna sotto la guida del socialista Maragall. Una coalizione composita che però durerà per l’intera legislatura, perché sarà tenuta insieme dal deterrente dello scioglimento a lui attribuito “sotto la sua esclusiva responsabilità” (lo stesso che ha il premier spagnolo).
Nel testo presentato dall’Ulivo lo scioglimento non c’è. L’argomento che giustifica questa scelta è che altrimenti si consentirebbe a un premier di sciogliere anche contro la sua maggioranza. Ma questa eventualità è esclusa in partenza da un’altra parte del testo. Infatti, dopo aver previsto la formalizzazione della candidature a premier (“contestualmente alla pubblicazione del programma elettorale), si precisa che non faccia “oggetto di separata menzione nella scheda elettorale”. Il che vuol dire che il nome va sulla scheda, ma che non può essere votato a parte. Se non si può essere candidati separatamente rispetto alla maggioranza, il premier che ricorresse allo scioglimento contro di essa, non sarebbe ricandidato. Quindi lo spauracchio non esiste: l’Ulivo vi ha già posto rimedio, ma non se n’è accorto.

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La norma antiribaltone

In cambio, è invece prevista la seguente norma antiribaltone: “In caso di sfiducia, e su sua proposta, vi sarà lo scioglimento a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato”.
Qui c’è un buco enorme: non si parla del caso più frequente di crisi, quello di dimissioni, quando un premier vede che la sua maggioranza non lo fa governare (chiedendo verifiche, rimpasti), anche se si guarda bene dallo sfiduciarlo.
Ma prendiamo per buona la tesi che sia una dimenticanza e che anche in tale caso si proceda per analogia. Autosufficiente vuol dire che qualsiasi partito che sia determinante per la maggioranza può costantemente minacciare non solo la caduta del Governo, ma anche quella della legislatura. Se a inizio legislatura Prodi ha il 55 per cento dei seggi, Bertinotti, il leader della forza più piccola, con un 6 per cento può chiedergli di farsi da parte in favore di un altro premier o può comunque interdire le sue decisioni più importanti. (Lo stesso esempio vale, dall’altra parte, per Berlusconi con Bossi).
Eravamo partiti per ridimensionare i veti e li abbiamo aumentati. Il vero anti-ribaltone è lo scioglimento: se non possiamo inserirlo, meglio non farne di niente, rischiamo solo di peggiorare lo status quo.

Troppo ampie le funzioni del Senato

Seri problemi anche per il Senato. Rispetto all’originaria e positiva impostazione con i senatori eletti contestualmente ai consigli regionali, il testo della maggioranza sembra ora erroneamente privilegiare la composizione mista (con senatori eletti, presidenti delle Regioni, sindaci, altri) che finisce per ricomporre i gruppi solo su base politica, perdendo qualsiasi logica territoriale. Ma soprattutto non convincono le funzioni, perché l’area di legislazione paritaria tra le Camere (dove il veto del Senato è imprescindibile) resta genericamente molto ampia, tale da ricomprendere l’intera Finanziaria. L’obiettivo è ovviamente di compiacere la Lega.
I difetti sin qui rilevati sono di per sé sufficienti a peggiorare la Costituzione vigente, perché i partiti minori all’interno della maggioranza grazie alle norme sul premierato e i vari gruppi, anche di opposizione, in Senato, formano una tale costellazione di poteri di veto da rendere ingovernabile il sistema. È in grado l’Ulivo, dialogando con la maggioranza, di correggere questi difetti? Altrimenti, anche in vista di un eventuale referendum, sarebbe meglio tenersi la Costituzione che abbiamo.

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