L’abbattimento della pressione fiscale promesso dal contratto con gli italiani riguarda solo una piccola fascia della popolazione, quella più ricca. Lo dimostrano le misure già adottate, come la soppressione della tassa sulle eredità di maggiore entità, e quelle previste per il futuro, come la revisione delle aliquote Irpef per gli ultimi scaglioni di reddito. Mentre gli effetti distributivi del primo modulo della riforma sono stati quasi nulli. “Meno tasse per tutti” è stato lo slogan dominante della campagna elettorale della Casa delle Libertà. L’abbattimento della pressione fiscale era il primo punto del “contratto” con gli italiani firmato da Silvio Berlusconi alla vigilia delle elezioni. Il “contratto” prevede: l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire (pari a circa 11 mila euro) e l’articolazione delle aliquote della nuova imposta sui redditi su due livelli: 23 per cento fino a 200 milioni di lire (100 mila euro) e 33 per cento al di sopra di questa soglia; la soppressione della tassa sulle successioni e donazioni. Dall’imposta di successione alla mini-riforma Irpef In questi due anni, il Governo ha effettivamente preso alcune iniziative di sgravio. La prima, adottata già con la legge dei “cento giorni“ (e quindi considerata una vera priorità), ha riguardato l’abolizione dell’imposta di successione. Lo sgravio è limitato in valore assoluto (nel 2000, il gettito della tassa è stato di circa 1 miliardo di euro) ma, soprattutto, è concentrato sulle eredità di maggiore entità: quelle sotto la soglia di 181 mila euro erano infatti già state esentate dal precedente Governo. Interessa dunque le trasmissioni patrimoniali (successioni e donazioni) delle famiglie più abbienti. Il secondo “sgravio” è la mini-riforma dell’Irpef contenuta nella Finanziaria 2003, che ha unificato al 23 per cento le aliquote dei primi due scaglioni di reddito, in precedenza pari, rispettivamente, al 19 e al 24 per cento. Vi sono ricompresi i redditi fino a circa 15 mila euro. Per tutti gli altri redditi, le aliquote continuano a variare dal 29 al 45 per cento. La delega fiscale In aprile il Parlamento ha approvato la delega fiscale (legge 80/2003), presentata nel dicembre del 2001, che meglio definisce le promesse elettorali di riduzione della pressione fiscale. Oltre a ribadire la già annunciata riforma dell’Irpef, la delega prevede l’abolizione dell’Irap. Dalle altre modifiche, inclusa una revisione profonda dell’imposta sulle società, non devono scaturire oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. In attesa del Dpef Nel documento inviato da Berlusconi ai leader della coalizione, al termine della scorsa settimana, manca ogni riferimento alla riforma fiscale. Ma, si è affrettato a precisare il ministro Tremonti, si è trattato solo di una dimenticanza (vedi il Sole24ore del 6 luglio). Il Dpef dovrebbe contenere dunque il secondo modulo della riforma fiscale.
Inoltre, è stata prevista l’esenzione dall’imposta per i redditi fino a 3.000 euro. Tale importo sale a 4.500 euro se il contribuente è titolare di redditi di lavoro autonomo, e a 7.000 o 7.500, se è titolare di pensione o di lavoro dipendente. Quanto fatto con il “primo modulo” della riforma è dunque ancora molto lontano dagli impegni assunti nel “contratto”. L’abbattimento della pressione fiscale è infatti limitato a 5,5 miliardi di euro contro i 21-23 miliardi indicati dal ministro Giulio Tremonti come costo complessivo (e quindi riduzione di imposta) della riforma dell’Irpef a regime. Questa manovra ingloba gli effetti delle riduzioni di aliquota già disposte dalla Legge finanziaria per il 2001 (l’ultima del Governo Amato), che sono state infatti abolite, e della mancata concessione del drenaggio fiscale.
Il contribuente ha però dovuto fare i conti con un inasprimento dei tributi locali (soprattutto addizionali regionali e comunali all’Irpef), che, secondo i dati Istat, sono cresciuti di più di 2,5 miliardi di euro nel 2002. In futuro non dovrebbero ripetersi, perché con l’ultima Finanziaria il Governo è corso ai ripari e, con buona pace del federalismo, ha bloccato l’autonomia dei Comuni e delle Regioni nella determinazione delle aliquote.
Sono quindi due le riforme che concretizzano la promessa di riduzione delle tasse: l’abolizione dell’Irap e la riforma dell’Irpef. Ma per entrambe rimane un’ampia incertezza sia nei tempi che nelle modalità di attuazione. La delega, infatti, è molto generica.
Per l’Irpef non esplicita la struttura e l’importo delle deduzioni dall’imponibile a regime e dunque il livello delle aliquote effettive.
Per l’Irap si limita ad annunciare la “graduale eliminazione” dell’imposta, “con prioritaria e progressiva esclusione dalla base imponibile del costo del lavoro e di eventuali ulteriori costi (
)”. In effetti, con la Finanziaria per il 2003, il Governo ha mosso un primo, timidissimo passo in questa direzione, concedendo uno sgravio Irap di 500 milioni (circa l’1,7 per cento dell’ammontare complessivo dell’imposta).
Neppure i decreti legislativi di attuazione della delega, che devono essere emanati entro due anni, aiuteranno a chiarire come e quando il Governo terrà fede alle promesse fatte. È previsto infatti che questi decreti siano di carattere “ordinamentale” ovvero “organizzatorio”. La quantificazione e la definizione degli effettivi sgravi è demandata annualmente al Dpef e alla legge Finanziaria: dipenderà dalle disponibilità di bilancio.
Che non ci si debba attendere una rapida attuazione degli sgravi annunciati è allora evidente: il loro costo complessivo si aggira infatti attorno ai 45-47 miliardi di euro, più di tre punti e mezzo di Pil: 15-17 miliardi per completare la riforma dell’Irpef e 30 per l’abolizione dell’Irap.
Cosa ci si può attendere? Dati i vincoli di bilancio, è difficile pensare che si possa trattare di riduzioni sostanziali della pressione fiscale.
Sull’Irap, il Governo ha già messo le mani avanti nei mesi scorsi, avvertendo che l’abolizione è troppo costosa e dovrà pertanto essere almeno in parte compensata con altre forme di prelievo (vedi Guerra 03-06-2003
Le difficoltà a procedere nella riforma dell’Irpef, invece, non derivano solo dal problema di reperire le risorse finanziarie in grado di coprirla. Nel rispetto del Patto per l’Italia, il primo modulo si è concentrato sui redditi più bassi. Ciò nonostante, gli effetti distributivi sono stati quasi nulli, soprattutto perché non si è affrontato il problema degli incapienti, cioè di coloro, i più poveri, i quali non hanno neppure un reddito sufficiente per beneficiare delle deduzioni dall’imponibile e delle detrazioni dall’imposta.
La parte della riforma che resta da attuare, la più rilevante dal punto di vista dell’ammontare assoluto degli sgravi fiscali, è politicamente molto più difficile: comporta un abbattimento delle aliquote degli ultimi scaglioni di reddito e avrà rilevanti effetti distributivi a vantaggio dei (relativamente pochi) contribuenti più ricchi (vedi Baldini-Bosi, 30-09-2002).
Nel “contratto” con gli italiani, il candidato premier Silvio Berlusconi si è forse dimenticato di esplicitare agli elettori che la promessa di “abbattere la pressione fiscale” era rivolta per lo più a una piccola parte della popolazione, quella più ricca.
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