Il Documento di programmazione economica e finanziaria 2004-2007 dovrà tracciare il programma da qui alla fine della legislatura. Al Governo Berlusconi rimane poco tempo e moltissimo da fare per onorare i cinque punti del contratto con gli italiani. E nel frattempo si sono aggiunte nuove costose promesse. Per avvicinarsi ai traguardi indicati servono risorse e quindi tagli in delicati capitoli di spesa. Altrimenti bisognerà rinunciare a parti del programma. Meglio che il Dpef chiarisca tutto questo. Sarebbe anche un modo per vincolare lintera coalizione di governo ai piani di fine legislatura. Il 27 settembre 1994, trecento candidati repubblicani al Congresso degli Stati Uniti, sottoscrissero un celebre “Contract with America” in cui si impegnavano a passare otto grandi riforme nell’arco di una legislatura di soli due anni. In caso contrario, autorizzavano gli elettori a “buttarli fuori dal Congresso” (letteralmente “throw us out”) anzitempo. Il “Contratto con gli italiani” sottoscritto davanti ai teleschermi dal solo Silvio Berlusconi prima delle elezioni del 13 maggio e “reso valido e operativo” da quel voto, è molto meno impegnativo. Sono solo cinque le promesse fatte, da rispettare nell’arco di ben cinque anni. Nessun invito agli elettori a cacciare via il premier inadempiente prima della fine del mandato. Anzi un’astuzia: bastano anche solo “quattro su cinque traguardi” a permettere al sottoscrittore di “ripresentare la sua candidatura alle successive elezioni politiche”. Newt Gingrich, l’ispiratore del “Contract with America”, il vero inventore di questi finti contratti – finti perché non sanzionabili – fu, di lì a poco, accusato di conflitto di interessi e bombardato di critiche all’interno del suo stesso partito. L’ambizioso programma dei Repubblicani non venne portato a termine, ma non furono cacciati a forza dal Congresso. Né si dimisero per coerenza con se stessi. Il precedente non è rassicurante, ma il presidente del Consiglio ha ancora tre anni di tempo per avvicinarsi ai traguardi del “contratto”. Vediamoli, al di là del loro merito, uno per uno e misuriamo la distanza che da questi ci separa. Lavoro Silvio Berlusconi si è impegnato a “dimezzare il tasso di disoccupazione, con la creazione di almeno 1 milione e mezzo di posti di lavoro”. Questo è il traguardo cui il Governo si è avvicinato di più, ma senza colpo ferire, sulla scia di riforme (come il Pacchetto Treu) varate nella scorsa legislatura. L’unica misura attuata sin qui è stata il recepimento, nel giugno 2001, della direttiva comunitaria sui contratti a tempo determinato. Paradossalmente, sono proprio questi contratti ad avere perso importanza negli ultimi due anni. Nei quali il tasso di disoccupazione è calato dal 9,6 all’8,9 per cento e sono stati creati circa 650mila nuovi posti di lavoro. Importante sottolineare che, dei cinque, è l’unico traguardo non-politico, vale a dire che può essere realizzato anche a prescindere dall’azione di Governo. Forse con maggiore rigore, ma meno astuzia, Newt Gingrich aveva fissato i propri obiettivi solo in termini di riforme da varare dai rappresentanti al Congresso. Pensioni Da candidato premier, Berlusconi si è impegnato a “innalzare le pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese”. Basta visitare il sito dell’Inps per scoprire che a fine 2002 c’erano ben otto milioni di pensioni (escludendo le pensioni e gli assegni sociali) inferiori a 500 euro al mese. Per portarle tutte al milione di vecchie lire ci vorrebbero 17 miliardi di euro, circa un punto e mezzo del Pil. Ma forse Berlusconi si riferiva, anziché alle pensioni, ai redditi dei pensionati (come è noto, si può ricevere più di una pensione). Bene, anche in questo caso – secondo i dati Istat – quasi due milioni di persone (per l’esattezza 1 milione e ottocentomila) mancavano all’appello a fine 2002. Non c’è da stupirsi perché gli aumenti sono stati concessi, nel gennaio 2002, solo agli ultra-settantenni con redditi di coppia inferiori ai 6.800 euro. Supponendo che l’integrazione sia anche solo di 100 euro al mese per pensionato, per raggiungere il traguardo ci vorrebbero altri 2 miliardi e mezzo di euro. Riforma fiscale Il contratto prevede “l’abbattimento della pressione fiscale” con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire (pari a circa 11 mila euro) e l’articolazione delle aliquote su due livelli: 23 per cento fino a 200 milioni di lire (100 mila euro) e 33 per cento al di sopra di questa soglia. Si prevede, inoltre, la soppressione della tassa di successione e di quella sulle donazioni. Quest’ultimo obiettivo è stato immediatamente realizzato. Quanto al primo, la mini-riforma fiscale contenuta nella Finanziaria 2003, non ha in nessun caso raggiunto l’obiettivo: l’esenzione concessa, differenziata per categorie di contribuenti, è compresa fra i 3 mila e i 7500 euro. Inoltre, solo i redditi fino a circa 15 mila euro sono soggetti all’aliquota del 23 per cento. Per tutti gli altri, le aliquote vanno dal 29 al 45 per cento. Tenendo ferme le originarie stime del ministero dell’Economia sul costo complessivo della riforma (21-23 miliardi di euro), il suo completamento dovrebbe costare ancora tra i 15 e i 17 miliardi di euro circa (si veda Giannini e Guerra). Infrastrutture Il contratto prevede “l’apertura dei cantieri per almeno il 40 per cento degli investimenti previsti dal Piano decennale per le grandi opere”. Si tratta di circa 35 miliardi di euro, vale a dire quasi tre punti di Pil e c’è chi sostiene che alcune stime di costo siano inverosimilmente basse. Una parte di queste opere (per quasi 13 miliardi di euro) potrebbe rientrare nel piano di investimenti europei predisposto dalla Presidenza italiana della UE (si veda Giavazzi, 19-06-2003). Ma non è affatto detto che riesca a decollare prima del 2006, soprattutto se sarà coinvolta – anche per eludere il Patto di stabilità e crescita – la Banca europea degli investimenti, meno soggetta al richiamo del ciclo elettorale. Anche se il contratto parla di “apertura di cantieri”, è, inoltre, legittimo pensare che gli elettori apprezzeranno di più il completamento di qualche opera piuttosto che la formale apertura di lavori che, nella migliore tradizione italiana, potrebbero andare avanti all’infinito (si veda Massimo Riserbo). Criminalità Berlusconi si è impegnato a introdurre “l’istituto del poliziotto o carabiniere o vigile di quartiere nelle città” e a ottenere “una forte riduzione del numero di reati”. Nella stragrande maggioranza delle città questo istituto, per la verità sperimentato senza grande successo negli Stati Uniti, non esiste ancora. I dati sui delitti per cui è iniziata un’azione penale vanno presi con le pinze dato il gran numero di reati che non vengono denunciati (comprensibile perché non si trova il colpevole in quattro casi su cinque). Ci dicono, tuttavia, che c’è stato un incremento nel numero di reati nel primo anno del Governo Berlusconi (si veda Galeotti). Anche alla luce di queste statistiche, sono forti le pressioni nella maggioranza per investire di più in sicurezza: il responsabile di AN per la sicurezza (Filippo Ascierto), sul Sole24ore del 5 luglio, ha chiesto risorse “tra i 2 e 3 miliardi di euro, da destinare a uomini, mezzi e infrastrutture”. Mentre importanti aumenti salariali sono già stati concessi alla Polizia di Stato. Un contratto molto costoso Insomma, c’è molta strada da percorrere per onorare gli impresi presi. Anche prescindendo dalla spesa per infrastrutture (che si cercherà di portare fuori bilancio) ci vorranno permanenti riduzioni di entrata o aggravi di spesa per circa due punti del Pil. Senza contare che nel frattempo si sono aggiunte altre promesse “costose”, alcune delle quali, come l’abolizione dell’Irap (30 miliardi di euro), contenute in un testo di legge. Al Governo nessuno sembra più farsi illusioni sul fatto che la riduzione della pressione fiscale si possa “pagare da sé” con maggiore crescita. Dunque bisognerà tagliare qualche capitolo di spesa. Una riforma previdenziale non può “fare cassa” nell’immediato: anche una forte accelerazione della transizione al “metodo contributivo” introdotto dalla riforma Dini inizialmente porterebbe a risparmi di poco più di 2 miliardi di euro all’anno. Non potendo incidere sulla spesa per interessi, le risorse dovrebbero allora essere reperite riducendo la spesa per consumi pubblici, leggi soprattutto stipendi degli impiegati pubblici. Si tratta di scelte delicate per un Governo che sin qui ha sottoscritto contratti molto generosi per il pubblico impiego e che ha di fronte rinnovi importanti (come sanità ed enti locali). Un “Dpef pesante” Morale della favola: per avvicinarsi ai traguardi presi davanti ai teleschermi, il nostro presidente del Consiglio ha probabilmente bisogno di un nuovo contratto, che specifichi, questa volta, quali spese si intende tagliare. E che andrà sottoscritto con gli alleati di Governo vincolandoli a scelte politicamente difficili. Non ci sarà bisogno di scomodare Bruno Vespa e chiedergli di trovare un tavolo di ciliegio più grande per la firma collegiale del contratto. Il Documento di programmazione economica e finanziaria 2004-7 dovrà comunque tracciare il programma di Governo da qui alla fine della legislatura. Meglio che non sia reticente sul come e dove tagliare. Dovrà essere un “Dpef pesante”, non leggero come proposto in questi giorni da alcuni membri della coalizione. E se non c’è accordo su quali spese tagliare, meglio stabilire subito a quali parti del programma si intende rinunciare.
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