Interpretare i dati sulla povertà non è semplice. Rivalutare una soglia relativa, aggiornandola per il solo aumento del costo della vita, equivale a tenere immobile la soglia di povertà. Mentre utilizzare una soglia della povertà relativa che si aggiorna automaticamente al variare della distribuzione del reddito è una prassi radicata nel nostro paese, ma non consente di monitorare con efficacia l’evoluzione del fenomeno, proprio per la sua eccessiva mobilità. Sul piano concettuale e su quello empirico sembra dunque preferibile seguire la dinamica della povertà assoluta.

Il dibattito aperto da Raffaele Tangorra e ripreso da Linda Laura Sabbadini sulle pagine de lavoce.info ha, fra gli altri, il merito di ricordarci quanto siano di difficile interpretazione i dati sulla povertà. Dalle riflessioni di Tangorra e Sabbadini emergono infatti le numerose ambiguità interpretative a cui si prestano concetti e metodi in materia di misurazione della povertà. L’esempio più significativo riguarda la distinzione fra povertà relativa e povertà assoluta, a cui il dibattito aggiunge quello di povertà “assolutamente relativa” (o povertà “relativa assolutizzata”, come si preferisce). Proviamo a riflettere su alcuni aspetti critici adottando il punto di vista degli economisti.

IN TEORIA

Chiariamo anzitutto che la misura di povertà assoluta non deve essere associata alla nozione di povertà estrema. I metodi più diffusi di stima della spesa per i bisogni essenziali che identificano la soglia della povertà assoluta ammettono, tanto in linea di principio quanto nei fatti, voci di spesa che nessuno sarebbe disposto a includere in una linea di povertà estrema. (1) È certamente questo il caso italiano: nella definizione della linea povertà assoluta messa a punto dall’Istat rientrano non solo beni di sussistenza (cibo, vestiario e abitazione), ma anche tutti quei beni e servizi che le famiglie italiane, dati gli stili di vita prevalenti, sono abituate a ritenere essenziali. (2)
Data questa premessa, sbaglia chi afferma che la misura di povertà assoluta trascura gli aspetti “relativi” che concorrono a definire la condizione di povertà. I bisogni essenziali sottostanti alla stima di una linea di povertà assoluta sono infatti identificati a partire dalla struttura sociale ed economica di riferimento e richiedono, peraltro, un aggiornamento periodico che tenga conto di mutamenti significativi di tale struttura. La linea di povertà assoluta, insomma, non prescinde dal contesto socio-economico in cui nasce e a cui si applica. (3)
La linea di povertà assoluta per gli Stati Uniti, pur tenuto conto di tutti gli aggiustamenti per le differenze nel costo della vita, è differente dalla linea di povertà assoluta in Italia in quanto è diverso l’insieme dei beni e servizi ritenuti essenziali nel nostro paese rispetto a quello nord americano. Considerazioni analoghe valgono se il confronto avviene lungo la dimensione storica. La linea di povertà assoluta per l’Italia di metà Ottocento è diversa dalla linea dell’Italia di oggi, non soltanto per effetto della variazione del potere di acquisto della moneta, ma anche e soprattutto per la variazione del paniere di beni e servizi ritenuti essenziali. (4)
Sbaglia ancora chi ritiene che la linea di povertà assoluta debba essere, per costruzione, inferiore alla linea di povertà relativa. Non è affatto detto che ciò accada e non vi è alcuna ragione generale  per attendersi che ciò accada. In una società impoverita o marcatamente diseguale lo standard di riferimento per la definizione di una condizione di povertà relativa può ben collocarsi al di sotto della spesa minima necessaria per soddisfare i bisogni essenziali. (5)
In cosa dunque si distinguono le linee di povertà assoluta e relativa? Dal punto di vista tecnico la risposta è semplice: differentemente dalla linea di povertà relativa, la linea di povertà assoluta non dipende direttamente da nessun centro della distribuzione dei redditi (o delle spese) individuali. In termini meno tecnici, la linea di povertà assoluta identifica uno standard di riferimento che non varia automaticamente al variare delle condizioni di vita della popolazione. Al contrario, la linea di povertà relativa definita come una quota del reddito (o della spesa) mediano della popolazione, fissa uno standard di riferimento instabile, un bersaglio mobile più o meno lontano a seconda delle condizioni medie di vita della popolazione. Come ci ricorda Linda Laura Sabbadini, la linea di povertà relativa cattura, al contempo, povertà e disuguaglianza senza poterle distinguere chiaramente.
Vi è, infine, la possibilità di costruire una soglia ibrida “assolutizzando” la linea di povertà relativa. (6) La linea di povertà, in questo caso, è definita a partire da una soglia (relativa o assoluta poco importa) in un determinato anno, aggiornandola di anno in anno per la sola variazione nel livello generale dei prezzi. È questa forse la soglia più rigida che si possa concepire, in quanto fissa uno standard di riferimento, quello dell’anno base, e lo rende del tutto insensibile al mutamento delle condizioni di vita della popolazione nel tempo (fatta eccezione, s’intende, per i fattori monetari).
Resta da osservare che la differenza tra povertà assoluta e povertà relativa emerge non tanto nel confronto dei rispettivi livelli stimati di incidenza della povertà, un esercizio da molti punti di vista privo di senso, quanto piuttosto dal confronto delle dinamiche delle linee di povertà relativa e assoluta. La misura di povertà assoluta, in quanto fondata su uno standard di riferimento relativamente stabile, consente di registrare in maniera immediata l’impatto e l’efficacia delle politiche di contrasto della povertà. La povertà relativa catturando anche la dinamica della disuguaglianza tende a nascondere gli effetti delle politiche sociali o a trasfigurarne il profilo sociale e territoriale. Ha ragione Tangorra nel lamentare la scarsa variabilità dell’indicatore di povertà relativa, ma questa scarsa variabilità dipende principalmente dal fatto che la linea di povertà relativa non è sufficientemente stabile nel tempo: di fatto è una soglia troppo mobile.

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IN PRATICA

Le questioni discusse nella prima parte di questo commento possono essere illustrate, svolgendo un esercizio empirico sulla base dei dati sui redditi delle famiglie italiane raccolti dall’indagine Banca d’Italia. Con riferimento al periodo 1977-2010, la figura 1 riporta tre linee della povertà:
1) la linea della povertà relativa (circoletti interpolati con linea rossa tratteggiata). Ciascun circoletto rappresenta il valore pari al 50 per cento del reddito medio pro-capite (espresso in euro 2010) osservato in ciascun anno. Negli anni considerati la soglia aumenta del 30 per cento, un aumento congruo, che sterilizza l’impatto della crescita economica (e della distribuzione dei redditi) sulle misure della povertà; (7)
2) la linea della povertà assoluta (quadratini interpolati con linea gialla tratteggiata). Il metodo utilizzato per costruire questa soglia è alternativo rispetto a quello adottato dall’Istat ed è descritto altrove. (8) Tuttavia, a prescindere dal metodo di stima, qui interessa sottolineare come la linea assoluta (a) anche se minore della linea di povertà relativa non riflette un reddito minimo di sussistenza, e (b) si modifica nel tempo, anche se più lentamente della linea di povertà relativa. La linea assoluta è pur sempre mobile, ma lo è meno di quella relativa;
3) la linea della povertà relativa “assolutizzata” o “rivalutata” (linea nera). Si tratta di una linea costante per costruzione, fissata arbitrariamente al livello della linea relativa per l’anno di partenza, cioè il 1977. Adottare la linea relativa del 1977 aggiornata per l’inflazione equivale ad assumere, come standard di riferimento per il periodo considerato, la linea assoluta delle famiglie italiane dell’anno 1998 (questa l’interpretazione del punto di incontro fra le due linee nella figura 1).

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Fonti: nostre elaborazioni su dati Banca d’Italia (http://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait). Per la linea di povertà assoluta: Amendola, Salsano e Vecchi (2011).

IN MEDIO STAT VIRTUS?

Rivalutare una soglia relativa, aggiornandola per il solo aumento del costo della vita, equivale a tenere immobilela soglia di povertà. L’operazione, ancorché lecita, non rappresenta una scelta adottata di frequente per le ragioni illustrate poc’anzi. D’altro canto, utilizzare una soglia della povertà relativa che si aggiorna automaticamente al variare della distribuzione del reddito costituisce una prassi che, per quanto diffusa e saldamente radicata nel nostro paese, non consente di monitorare con efficacia l’evoluzione del fenomeno povertà. In questo caso, la ragione risiede nell’eccessiva mobilità esibita dalla soglia di povertà relativa. La terza possibilità, la linea della povertà assoluta, rappresenta la soluzione che pare preferibile, tanto sul piano concettuale quanto su quello empirico. È una soglia mobile (come prescrive buona parte della migliore letteratura economica), ma non troppo (ciò consente, pragmaticamente, di monitorare meglio la dinamica della povertà nel tempo). Se si vuole accogliere la sollecitazione di Tangorra (com’è possibile che nel corso della più grave recessione del secondo dopoguerra gli indicatori di povertà non segnalino un peggioramento del fenomeno?) avendo a cuore le questioni metodologiche difese da Sabbadini (non si possono mescolare impropriamente linee e misure della povertà), la direzione è quella di seguire la dinamica della povertà assoluta. Come farlo, nella pratica, è un’altra storia.

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(1) Ravallion, M. (1994) Poverty comparisons, Chur: Harwood Academic Publishers.
(2) Sabbadini, L.L. (2009) “Una nuova povertà assoluta”. Istat (2009), La misura della povertà assoluta, Metodi e norme n. 39.
(3) Sen, A. (1983) “Poor, Relatively Speaking”, Oxford Economic Papers, 35, 2: 153-169.
(4) Atkinson A.B. (1998), Poverty in Europe. Wiley. Amendola, N., F. Salsano e G. Vecchi (2011), “Povertà” in G. Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’unità a oggi. Il Mulino.
(5) Foster, M. (1998), “Absolute versus Relative Poverty”, American Economic Review, 88, 2: 335-341.
(6) Citro, C.F. e R.T. Michael (1995), Measuring Poverty a New Approach. National Academic Press. Vedi anche il già citato Atkinson (1998).
(7) Per gli anni in comune, la dinamica è in linea con quella stimata dalla Cies 1996: Tav. 1.
(8) Amendola, N., F. Salsano e G. Vecchi (2011)

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