L’apparato sanzionatorio della disciplina delle operazioni con parti correlate va rivisto. Il nuovo regime dovrebbe distinguere tra violazioni per dolo e per colpa degli amministratori indipendenti. Sanzioni per chi compie operazioni in conflitto d’interessi.

LA DISCIPLINA DELLE OPC

Da tre anni, le operazioni con parti correlate (ossia con amministratori, soci di controllo e altri) sono oggetto di una disciplina, che, pur non rivelandosi particolarmente stringente se confrontata con altre legislazioni, ha richiesto alle società di adottare procedure articolate, che fanno perno sul controllo preventivo da parte degli amministratori indipendenti e sulla trasparenza.
La sua applicazione ha indotto una maggiore consapevolezza dei rischi che queste operazioni pongono per l’interesse della società e dei soci di minoranza nonché, più in generale, per la credibilità del nostro mercato azionario.
A riprova dell’impatto di queste regole sulla vita delle società quotate, il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, nel suo discorso al mercato di lunedì 5 maggio, ha ricordato come in vari casi “le condizioni economiche delle operazioni, quali fusioni o trasferimenti di rami d’azienda tra parti correlate, siano state riviste in senso più favorevole agli azionisti di minoranza”.

CHI VIENE SANZIONATO?

La disciplina, tuttavia, ha un apparato di enforcement inadeguato. La Consob può solo sanzionare la società per violazione delle regole che impongono l’informazione al mercato su queste operazioni. E può sanzionare i sindaci – ma non gli amministratori né tanto meno la parte correlata – per l’omessa vigilanza sul rispetto delle procedure.
Colpire i soli sindaci significa farne, come è ormai loro caratteristica, dei Signor Malaussène del diritto societario. Mentre chi trae profitto dall’operazione con parte correlata a danno della società, cioè la parte correlata stessa (di solito l’azionista di controllo), non corre alcun rischio.
In un sistema che quasi non conosce l’enforcement privato (davanti al tribunale civile), e dunque fa leva soprattutto sull’azione della Consob, l’inadeguatezza dell’apparato sanzionatorio è ancora più grave. Nel discorso al mercato, Vegas ha proposto di estendere agli amministratori i poteri sanzionatori della Commissione.
L’idea è di colpire con una multa gli amministratori che commettono gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri previsti dalla disciplina Opc, ove tali irregolarità possano recare danno alla società. Questi doveri sono di ordine procedurale e richiedono una valutazione sull’operazione ai soli amministratori indipendenti, mentre non impediscono al socio di controllo che siede in consiglio d’amministrazione di astenersi dalla deliberazione. È dunque improbabile che una sanzione così congegnata possa colpire l’azionista di controllo. Certo è invece che la disposizione consentirebbe di sanzionare l’amministratore indipendente che, non solo con dolo ma anche per mera colpa, non adempia integralmente ai numerosi doveri che su di lui incombono ai sensi del regolamento.
La sanzione colpirebbe, dunque, non soltanto l’amministratore indipendente infedele, che con dolo, ad esempio, rilasci un parere favorevole all’Opc dannosa, bensì anche colui che in buona fede abbia dato parere favorevole alla stessa operazione non avendo tenuto conto di informazioni a lui ignote, ma che avrebbe dovuto conoscere.
Non è difficile immaginare che di fronte a questo rischio, un amministratore possa essere portato a dire di no anche a Opc vantaggiose per la società. Ciò è inevitabile, più in generale, laddove il regime della responsabilità non contempli anche il rispetto della cosiddetta business judgment rule (o regola del giudizio imprenditoriale). Dove la regola è stata sviluppata, gli Stati Uniti, le corti non solo non sindacano il merito delle scelte di gestione, ma, in assenza della prova della mala fede degli amministratori, neppure sottopongono a vaglio la correttezza del processo e la completezza del quadro informativo alla base di una determinata decisione. A seguito dell’unico caso (Smith v. van Gorkom, 1985) che in Delaware ha giudicato non sufficientemente informati gli amministratori riguardo a un’operazione straordinaria, il diritto societario è stato modificato per consentire alle società di adottare clausole statutarie che escludono la responsabilità degli amministratori per violazione del dovere di diligenza, salvo il caso del dolo. Queste clausole sono oggi diffusissime tra le società americane.

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L’AMMINISTRATORE INFORMATO DEI FATTI

In Italia, invece, gli amministratori devono agire in modo informato: ossia, non solo acquisire le informazioni fornite dagli organi delegati, ma anche fare le domande che le circostanze richiedono. Clausole statutarie limitative della responsabilità degli amministratori verrebbero giudicate invalide. Ma è facile, ex post, ritenere che le circostanze fossero tali da richiedere all’amministratore di sollevare dubbi e richiedere informazioni. È facile, cioè, giudicare con il senno di poi negligente un amministratore per l’inerzia nei confronti di comportamenti a lui, in realtà, ignoti.
Non è per buonismo che ci si deve preoccupare del rigore delle regole in materia di responsabilità per colpa degli amministratori privi di conflitti d’interessi.
Questo rigore porta a un eccesso di cautela, ossia all’assunzione di rischio in misura meno che ottimale; induce a preferire le prassi, le strategie, i modelli organizzativi più diffusi, anche se magari meno adatti alla singola società o non più adeguati ai tempi, piuttosto che le soluzioni originali, più difficili da giustificare ex post se le cose vanno male. Ancora, il rigore porta a non riconoscere gli errori effettuati e a non porvi rimedio, nella speranza che il tempo risolva le cose e non si debbano ammettere le proprie (colpose) responsabilità, con il rischio però che le conseguenze negative nel frattempo si aggravino. Distorce le dinamiche interne ai consigli d’amministrazione, dove prevarranno gli atteggiamenti “tergaprotettivi” e l’attenzione alle forme del processo decisionale piuttosto che la ricerca delle soluzioni migliori e le discussioni sulla sostanza dei problemi. Per evitare storie con gli amministratori più prudenti, gli organi delegati tenderanno a richiedere sempre meno l’opinione del consiglio e a informarlo il meno possibile, privandosi dell’apporto di consulenza che il consiglio di amministrazione può altrimenti svolgere su scelte importanti per la società.
In conclusione, una revisione dell’apparato sanzionatorio della disciplina delle Opc non solo dovrebbe distinguere tra violazioni per dolo e violazioni per colpa (anche grave: ex post, infatti, la colpa è facilmente qualificabile come grave) degli amministratori disinteressati, ma potrebbe costituire l’occasione per una più generale riflessione sui doveri degli amministratori di società per azioni: si dovrebbe passare a un sistema che in generale non colpisce i comportamenti in buona fede, anche se negligenti, ma sanziona invece con decisione quelli dolosamente scorretti.
Da un lato, dunque, occorrerebbe introdurre una vera business judgment rule; dall’altro, non dovrebbero farla franca coloro che inducono una società a compiere operazioni in conflitto d’interessi: la legge dovrebbe riconoscere espressamente in capo agli amministratori in conflitto d’interessi e ai soci di controllo che concludano Opc con la società un dovere di lealtà nei confronti della società stessa e dei soci di minoranza, la cui violazione, allora sì anche solo colposa, dovrebbe essere punita sia civilmente sia con sanzione pecuniaria amministrativa.

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