L’evidenza empirica sulle esperienze dei paesi Ocse mostra che le politiche di decentramento non sono associate ad alcun miglioramento significativo della crescita economica. E in Italia il processo di convergenza del Mezzogiorno verso i valori medi del nostro Pil pro-capite si interrompe negli anni Settanta, in coincidenza con la nascita dei governi regionali. Perché quando cresce il ruolo delle istituzioni locali nella fornitura di beni pubblici essenziali, sono le differenze di capitale sociale a entrare in gioco nel determinare i risultati economici dei singoli territori.

Che spesso le Regioni italiane non siano un buon esempio di efficienza è sotto gli occhi di tutti. La proposta del Governo Monti di mettere mano alla riforma del Titolo V è il risultato della crescente consapevolezza che il meccanismo di decentramento disegnato da quelle norme funziona male. Lo ha riconosciuto qualche giorno fa anche Giuliano Amato, che pure guidava il Governo quando la riforma fu approvata.

IL CASO DELLE REGIONI MERIDIONALI

Il meccanismo funziona male soprattutto ora che l’Italia è chiamata a mettere ordine nella propria politica di bilancio. Benché l’approvazione del Titolo V non abbia fatto esplodere la spesa regionale, come hanno mostrato Paolo Balduzzi e Massimo Bordignon, la confusa accountability lì disegnata  rende comunque difficile coordinare la finanza pubblica e armonizzare i bilanci dei vari livelli di governo.
Ma i dubbi sugli effetti delle politiche di decentramento vanno ben oltre i problemi di finanza pubblica. In gioco c’è anche e soprattutto l’economia reale.
Per esempio, l’evidenza empirica basata sulle esperienze di decentramento politico, amministrativo e fiscale nei paesi Ocse mostra che non sono associate ad alcun guadagno significativo in termini di crescita economica. (1)Gli effetti ipotizzati dai modelli classici di federalismo fiscale faticano dunque a materializzarsi.
Per l’Italia, c’è un episodio che ancora oggi condiziona la nostra vita economica e che può aiutarci a capire l’origine dell’ambiguo effetto del decentramento sull’economia reale.
All’inizio degli anni Settanta, dopo venti anni di rapida convergenza verso i valori medi del Pil pro-capite italiano, ilMezzogiorno interruppe bruscamente la sua rincorsa. Da allora le Regioni del Sud sembrano intrappolate in un ritardo economico grave e apparentemente indifferente alle enormi risorse pubbliche stanziate per combatterlo.
Cosa ha interrotto la convergenza del Mezzogiorno, cosa ne ha determinato la permanenza da decenni in una situazione economica così sfavorevole? Tra i molti fattori che possono essere citati, uno è proprio ildecentramento politico e amministrativo. È infatti possibile che gli aumentati poteri attribuiti in quegli anni ai governi regionali siano stati una opportunità per alcune aree e un danno per altre, quelle meridionali. (2)
È in effetti ciò che ci si dovrebbe aspettare in un paese fortemente caratterizzato da profonde e persistenti differenze regionali di capitale sociale, come l’Italia. E nel quale, come è ovvio, le differenze di capitale sociale determinano un analogo divario nel funzionamento delle istituzioni locali.
Così, quando il decentramento accresce il ruolo svolto dalle istituzioni locali nella fornitura di beni pubblici essenziali, le differenze di capitale sociale entrano in gioco con più forza che nel passato nel determinare leperformance economiche dei singoli territori, con probabili conseguenze negative per le Regioni meridionali. (3)
Questo in teoria. Ma è andata davvero così?

Leggi anche:  Carriere nella pubblica amministrazione: tanta anzianità, poco merito*

IL RUOLO DEL CAPITALE SOCIALE

Per effettuare un primo controllo di questa ipotesi abbiamo utilizzato dati provinciali dal 1961 al 1990. (4)Siccome il processo di decentramento è stato avviato in un periodo in cui sono avvenute altre cose importanti, come l’abolizione delle cosiddette “gabbie salariali”, abbiamo considerato solo le province toccate in maniera omogenea da quella riforma mercato del lavoro. (5)

Cattura

Fonte: Nostra elaborazione su dati ripresi da Fabiani S. e Pellegrini G. (1997), “Education, infrastructure, geography and growth: an empirical analysis of the development of Italian provinces”, Banca d’Italia Temi di Discussione, n. 323

Si tratta di 48 province (tutte quelle meridionali più 17 del Centro-Nord) che abbiamo suddiviso in due gruppi, rispettivamente con “alto” e “basso” capitale sociale. (6) Sette province meridionali fanno parte del gruppo “alto”, nessuna del Centro-Nord fa parte del gruppo “basso”. La figura 1 dà una prima indicazione della performanceeconomica relativa dei due gruppi negli anni del decentramento. Come si vede, le province con basso capitale sociale perdono terreno proprio in quel periodo, passando dal 75 per cento del 1971 al 68 per cento del 1978.
Questa evidenza è un indizio a favore dell’ipotesi secondo cui l’influenza esercitata dalle dotazioni locali di capitale sociale sulle economie territoriali potrebbe essere aumentata in corrispondenza al processo di decentramento.
È un indizio e non una prova perché, oltre al decentramento e alla riforma del mercato del lavoro, altri fattori possono aver contribuito all’improvviso arresto del processo di convergenza del Sud. Per esempio la crisi energetica, con le sue profonde conseguenze sugli investimenti nell’industria di base che le partecipazioni statali avevano localizzato nel Mezzogiorno.
Ma perché shock temporanei di questo tipo hanno determinato risultati negativi permanenti? Il decentramento, con il suo approfondirsi negli anni, può aiutare a spiegare per quale motivo le politiche adottate dopo gli anni Settanta sono state del tutto incapaci di far ripartire l’economia meridionale, a dispetto delle enormi risorse pubbliche investite.
Certo è che il decentramento non sembra aver aiutato il Sud a risolvere i suoi problemi, anzi. Niente di sorprendente, verrebbe da dire: decentrare a favore di aree con istituzioni locali più efficienti di quelle centrali è una scommessa facile da vincere; farlo a favore di aree in cui le istituzioni locali funzionano male è un azzardoche può avere un costo molto alto.
Il nesso tra l’interruzione della convergenza meridionale e il decentramento merita più attenzione di quella che ha ricevuto finora. Ci sono lezioni del passato da cui dovremmo imparare, se non altro per evitare di continuare a oscillare tra improvvisati decentramenti e altrettanto frettolosi cambiamenti di rotta.

Leggi anche:  Non tutti i territori sono uguali, neanche nelle aree competitive

(1) A. Rodriguez-Pose e R. Ezcurra, “Is fiscal decentralization harmful for economic growth? Evidence from the OECD countries”, Journal of Economic Geography, 11, 2011, pp. 619-643.
(2) Con l’elezione dei Consigli regionali del 1970, le Regioni entrarono nelle storia istituzionale italiana. Gli statuti vennero promulgati il 22 maggio 1971. A completare la prima fase del regionalismo italiano intervenne la delega per la definizione delle funzioni, degli uffici e del personale da trasferire ai nuovi enti come stabilito dall’art. 17 della legge n. 281 del 1970. Con i primi decreti delegati si iniziò fin dal 1972 a trasferire alle Regioni importanti funzioni amministrative, alcune delle quali incidevano direttamente sull’efficienza degli investimenti pubblici.
(3) Una analisi formale della relazione tra capitale sociale ed efficacia degli investimenti pubblici in presenza di decentramento, con una applicazione al caso del Mezzogiorno, è sviluppata in Mauro e Pigliaru (2012)http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2063534 .
(4) L’esercizio che segue è stato sviluppato nel nostro articolo “Capitale sociale, crescita e shock istituzionali: cosa ci insegna il caso del Mezzogiorno”, in G. DeBlasio e P. Sestito (a cura di), Il Capitale Sociale, Donzelli, 2011. Già nel 1995 nel loro “Economic Growth and Social Capital in Italy” (Eastern Economic Journal, Vol. 21, pp. 295-307) J. Helliwell e R. Putnam avevano suggerito che decentrare in presenza delle differenza regionali di SK avrebbe potuto generare divergenza. Nel farlo, hanno peccato di ottimismo: per loro la divergenza sarebbe stata temporanea, perché in tempi ragionevoli le regioni in ritardo avrebbero “copiato” le migliori istituzioni di quelle più ricche.
(5) Si tratta delle provincie che nel sistema vigente fino al 1969 rientravano nella stessa fascia (inferiore) di livello salariale: tutte le province meridionali sono incluse nel campione insieme a 17 province del centro-nord.
(6) I dati sul capitale sociale a livello provinciale sono basati su R. Cartocci, Le Mappe del tesoro, il Mulino, Bologna, 2007.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Non tutti i territori sono uguali, neanche nelle aree competitive