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Quando il ranking diventa un’ossessione

L’uso improprio dei ranking di scuole e università porta alla polarizzazione delle opportunità educative. Col tempo genera diseguaglianze tra gruppi sociali e tra territori. Un rischio che il nostro paese, già alle prese con tanti divari, non può correre.

La moda dei ranking

L’utilizzo di ranking delle istituzioni formative, come strumento sia di valutazione sia di scelta delle famiglie, si è affermato nel panorama nazionale e internazionale nel presupposto, più o meno esplicito, che riflettano la qualità intrinseca delle istituzioni (qualità della didattica, degli insegnanti e dell’organizzazione).

A seconda dei casi, le classificazioni si basano sugli esiti della formazione in termini di successo educativo o di qualità dell’inserimento occupazionale. Due esempi sono la valutazione degli istituti di istruzione superiore sulla base dei risultati ottenuti all’università dai diplomati o la valutazione delle università sulla base di indicatori di inserimento occupazionale dei laureati (tasso di occupazione e altro).

Sul piano metodologico si tratta, in linea generale, di un’operazione non corretta: per potere dire che l’istituzione A è di qualità migliore dell’istituzione B occorrerebbe potere depurare gli esiti in uscita dagli effetti legati al background socioeconomico degli alunni e al contesto ambientale, fattori che condizionano tanto il potenziale di apprendimento quanto le prospettive occupazionali.

In poche parole, occorrerebbe adottare misure di valore aggiunto, un’operazione non semplice ma necessaria. È infatti evidente, ad esempio, che se si confronta una scuola di della periferia di Roma, i cui iscritti provengono da contesti svantaggiati, con una scuola del centro città, alla quale si iscrivono giovani provenienti da contesti socioeducativi avvantaggiati, indipendentemente dalla qualità della scuola, questi ultimi avranno risultati migliori.

Di recente, proprio l’utilizzo delle classifiche ha indotto alcune scuole ad adottare politiche nascoste di selezione in entrata per garantire sia un adeguato contesto ambientale alle famiglie sia migliori performance in uscita. Sono politiche che si traducono inevitabilmente in forme di selezione sociale.

Quindi, in generale, i ranking non depurati da questi effetti non sono una misura di qualità delle istituzioni formative, ma una misura della qualità del contesto sociale.

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Perché tutto ciò è molto rilevante? Perché l’utilizzo delle classifiche, soprattutto se a fini di valutazione e di attribuzione di risorse, o anche semplicemente come strumento di scelta delle famiglie, tende a polarizzare il sistema sul piano educativo e su quello socioeconomico.

Le indagini internazionali sugli apprendimenti (ad esempio, Pisa dell’Ocse) mostrano che sistemi educativi più inclusivi fanno segnare anche risultati migliori. Quindi, indipendentemente da considerazioni di equità e di pari opportunità educative, sistemi polarizzati sono anche meno efficienti.

Il caso delle università del Sud

Per quanto riguarda le università, vi sono forti indizi che i loro risultati siano condizionati anche dagli apprendimenti pregressi degli studenti e dalle condizioni locali del mercato del lavoro. In particolare, le differenze tra territori negli esiti della scolarizzazione primaria e secondaria, che inevitabilmente incidono sui rendimenti universitari (abbandoni, ritardo alla laurea e così via), appaiono avere origini lontane.

L’esodo di studenti registrato in questi anni dal Mezzogiorno verso il Nord Italia e i paesi esteri, che riguarda soprattutto, ma non solo i giovani più avvantaggiati, col passare del tempo non potrà che peggiorare le posizioni degli atenei del Sud nei ranking, soprattutto se questi ultimi vengono utilizzati a fini dell’attribuzione delle risorse.

La polarizzazione delle opportunità educative, esito inevitabile di un uso improprio dei ranking, è uno dei potenti fattori generatori di ineguaglianza tra gruppi sociali e tra territori nel lungo periodo. Un esito che il paese, già caratterizzato da forti cesure territoriali e sociali, non si può permettere, anche perché foriero di una accentuata conflittualità che mina le basi della convivenza civile.

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  1. Alice Dominici

    A livello nazionale, queste sono considerazioni giustissime. Aggiungerei che, siccome gran parte delle possibilità di inserimento nel mondo del lavoro dipende da quanto gli studenti sono esposti a quest’ultimo durante gli studi universitari, si crea un netto divario tra pubbliche e private, andando ad ampliare le disuguaglianze generazione dopo generazione. Va anche considerato, però, il possibile effetto che questo tipo di valutazione ha sulla formazione offerta: c’è la questione quasi filosofica quindi, di stabilire se l’università debba essere una palestra in vista del lavoro o se invece dovrebbe focalizzarsi sulla cultura in quanto tale, e formare opinioni e metodi che gli studenti potranno applicare nel lavoro in forma indiretta. Credo che trovare lavoro sia ben più facile nel primo caso. Quanto poi alla valutazione della didattica, è pressoché inesistente nella compilazione di questi ranking, soprattutto a livello internazionale: conta molto di più la rilevanza della facoltà nell’ambito della ricerca: non sempre però tante pubblicazioni o citazioni sono indice di un buon insegnamento, ci sono da considerare gli incentivi spesso distorti posti dalle riviste scientifiche per poter pubblicare (soprattutto nelle scienze sociali!), e ovviamente le capacità didattiche del singolo ricercatore, che non devono mai essere date per scontate.

    • Amegighi

      Sono un docente universitario, dell’area scientifica e con esperienza estera sia di insegnamento che ricerca. Concordo pienamente con le sue argomentazioni. Nel settore della ricerca, se il ranking e altri sistemi bibliometrici hanno avuto un merito, è stato sicuramente quello di aumentare le entrate di taluni editori e giornali, di abbassare il livello culturale generale (si può sapere tutto sulla punta di uno spillo, ma non sapere a cosa serve uno spillo), di creare una ricerca settorializzata e quindi autoreferente, omogeneizzante più basata sull’esercizio del tecnicismo piuttosto che dell’idea e della teoria, di portare persone inesperte a dirigere e distribuire le risorse (tanto basta vedere il ranking), di portare quasi all’estinzione interi settori della ricerca di base, di far appassire il punto chiave della ricerca di base, cioè la libera fantasia alle idee della mente. La didattica è stata totalmente svilita, ma nelle grandi università americane si è salvata per i fondi e per il fatto che è svolta da persone totalmente dedite ad essa. Dei professionisti della didattica (vedi UTunes), che possono lavorare in virtù di un altro aspetto che noi bellamente dimentichiamo e che nessun politico vuole affrontare: il valore legale del titolo di studio. Se questo fosse introdotto, così come fosse ripristinata una certa valutazione della didattica per la progressione di carriera (attualmente assente), e le Università fossero messe in competizione, sicuramente miglioreremmo.

  2. maurizio angelini

    A conferma della sua analisi cito il caso di un Liceo Classico Padovano che conosco bene. I risultati conseguiti da studenti e studentesse “ex” negli esami di ammissione alle facoltà universitarie li collocano storicamente ai livelli più elevati: ma l’80% dei genitori di quei ragazzi è laureato, un 60% sono figli e figlie di esercenti professioni intellettuali, il 70% dei medesimi ha entrambe i genitori che lavorano; i figli di operai sono il 4%, i provenienti da famiglie straniere di prima emigrazione sono il 2%; i disabili inseriti non esistono. A queste condizioni si fa presto a “sfornare” i migliori!

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