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Perché cresce il numero dei nuovi italiani

L’alto numero di stranieri che ottengono oggi la cittadinanza italiana è l’effetto diretto dell’alto numero di ingressi che si è verificato tra la fine degli anni Ottanta e il 2008. E sono proprio le politiche restrittive che spingono più immigrati a chiederla.

Arrivati negli anni Novanta, cittadini oggi

A volte un dato può essere in sé esatto, ma dar luogo a interpretazioni fuorvianti. È il caso del numero sulle naturalizzazioni in Italia, polemicamente brandito da Matteo Salvini contro la proposta di legge sulla cittadinanza, tornata in questi giorni di attualità.

L’alto numero di concessioni della cittadinanza italiana è in realtà l’effetto a distanza di tempo dell’alto numero di ingressi che si è verificato nel nostro paese tra la fine degli anni Ottanta e il 2008, quando la crisi economica ha innescato un brusco rallentamento del fenomeno, fino alla stasi degli ultimi tempi. Ora stanno semplicemente maturando le condizioni di accesso alla cittadinanza per questi immigrati e per i loro figli. Anche con una legge restrittiva come la nostra.
Altri paesi hanno un andamento più moderato per il semplice fatto che hanno avuto flussi più antichi e diluiti nel tempo. Non è una questione di criteri più o meno liberali: l’Italia non ha concesso più naturalizzazioni perché è scriteriatamente generosa, ma perché è molto consistente la massa demografica delle persone che hanno raggiunto i dieci anni di residenza ininterrotta e possono quindi accedere alla procedura di naturalizzazione. Ha operato in questo senso il mercato, famiglie comprese, che per anni ha assunto migliaia di persone immigrate anche prive di permesso di soggiorno. Poi sono intervenute le sanatorie, ben sette in venticinque anni, oltre ad altri provvedimenti minori o nascosti, come i decreti-flussi. In modo particolare, i governi a guida Silvio Berlusconi sono stati i maggiori regolarizzatori della storia europea degli ultimi decenni, con i 630mila regolarizzati in seguito alla legge Bossi-Fini (2002-2003) e i 300mila del decreto Maroni (2009).

Nelle analisi di questi fenomeni bisogna considerare le serie storiche pluriennali, che danno l’effettiva misura delle tendenze, e non un singolo dato annuale, come fa Salvini.

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Se consideriamo un orizzonte temporale più lungo, il più opportuno per osservare tendenze di lungo periodo, si nota come in realtà l’Italia non sia affatto lassista sulla materia.

Figura 1 – Cittadinanze concesse da Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito – 2004-2015

Fonte: Eurostat

La serie storica mostra bene che il totale delle cittadinanze concesse dal 2004 al 2015 è di molto inferiore rispetto agli altri paesi con cui l’Italia condivide i primi posti della classifica per numero di immigrati regolarmente residenti (Germania, Francia, Spagna e Regno Unito). Con 837.723 richieste accettate, rimane ben lontana dal Regno Unito, che negli stessi undici anni ha concesso quasi due milioni di cittadinanze.

 

Figura 2 – Totale cittadinanze concesse da Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito dal 2004 al 2015

Fonte: Eurostat

Al di là dei valori assoluti, è inoltre opportuno osservare la quota di coloro che ogni anno ottengono la cittadinanza rapportata al totale degli stranieri residenti. Dalla tabella 2 si nota come il valore sia in crescita negli ultimi anni, giacché aumentano gli immigrati con dieci anni di residenza regolare e ininterrotta, rimanendo comunque inferiore rispetto ad alcuni paesi del Nord Europa, come Svezia, Finlandia e Paesi Bassi, ma anche rispetto a Portogallo e Polonia.

Tabella 2 – Percentuale di stranieri residenti che hanno ottenuto la cittadinanza sul totale degli stranieri residenti

Fonte: Eurostat

Il ruolo delle politiche restrittive

Va infine ricordato un aspetto controintuitivo. Le naturalizzazioni sono aumentate in vari paesi, Stati Uniti compresi, dove si viaggia su cifre nell’ordine dei 700mila casi all’anno, come conseguenza degli orientamenti restrittivi delle politiche dichiarate: temendo di poter essere un giorno cacciati, o comunque discriminati, molti immigrati preferiscono naturalizzarsi. Un po’ come  avviene oggi nel Regno Unito per molti residenti italiani o di altri paesi dell’Unione europea: il timore di decisioni politiche avverse induce coloro che ne posseggono i requisiti a richiedere la cittadinanza britannica.

L’aumento delle naturalizzazioni è quindi una conseguenza paradossale delle politiche che Salvini auspica. Anche residenti stranieri non particolarmente motivati a diventare cittadini del paese che li ospita sono sospinti a farlo.

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I paesi democratici, fra l’altro, hanno limiti autoimposti dai loro ordinamenti nell’indagare gli orientamenti culturali, politici e religiosi delle persone, anche straniere. In questi ultimi anni hanno puntato su un maggiore rigore in fatto di conoscenza della lingua e anche della storia, delle leggi e delle tradizioni del paese: è la prospettiva dell’“integrazione civica”, vista come pre-requisito per l’accettazione come semplici residenti e a maggior ragione come cittadini.

L’enfasi sulla dimensione cognitiva, tuttavia, può forse filtrare qualche straniero con scarsa istruzione e poche capacità di apprendimento, ma non ferma la grande maggioranza degli immigrati, formata da giovani adulti determinati, spesso discretamente scolarizzati e comunque in grado di imparare. Alla fine il risultato che si ottiene è semplicemente quello di avere nuovi cittadini più preparati di quelli che lo sono per discendenza, in materia di conoscenza della Costituzione e dei fatti salienti della storia patria.

Per quanto il cambiamento non sia semplice, e forse neppure indolore, la sfida del futuro è anche per l’Italia quella di superare l’idea ottocentesca di nazione, che Alessandro Manzoni definiva come «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor» (Marzo 1821). Il nostro tempo ci richiede di elaborarne una versione più flessibile e inclusiva.

Ho trattato questi temi in un libretto, Migrazioni, uscito in questi giorni presso l’editrice Egea dell’Università Bocconi. Rimando a quel testo per i necessari approfondimenti.

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  1. Virginio Zaffaroni

    Io non vedo un problema in un Europa multietnica. Non mi è invece chiaro il concetto di Europa multiculturale. Do per fermo che si rifiuti qualsiasi folle idea di Italia/Europa multinormativa (quell’idea per cui accanto alla legge nazionale viga in certi quartieri la legge etnica. Qualcosa del genere pare ci sia in Belgio e a Londra). Rimane la questione “multiculturale”. Cosa significa? Se multiculturale significa che, una volta rispettati con più o meno ritrosie i Codici e le leggi, uno mantiene integra, unica e prevalente la sua cultura, bé allora perché costringerne i figli a frequentare le nostre scuole?. Basta un corso obbligatorio sui Codici vari e poi ognuno si faccia la scuola etnica che vuole e secondo i propri programmi scolastici. Dante, Manzoni, l’arte figurativa, il pensiero occidentale, la libertà della scienza, l’emancipazione femminile e via dicendo non li riguarderà essendo una cultura altra. Anche molti italiani queste cose le ignorano o le hanno scordate. Ma, a parte che nel fondo di ciascuno c’è un deposito della propria cultura, qui il punto è banale: per gli italiani la cittadinanza è per jus sanguinis non per jus culturae. Quindi, se questa indipendenza culturale e scolastica non si dà (tanto è vero che si sta parlando di jus culturae) è perché non si vuole il multiculturalismo. Si vuole una convergenza culturale, giusto? Allora se è così, come pensate che cinque anni di elementari e l’assenza di un retroterra famigliare la possano assicurare?

    • Virginio Zaffaroni

      Solo ora mi sono accorto che nello scrivere il testo di cui sopra l’Europa multietnica si è mangiata ..l’apostrofo davanti a “un”. Mi scuso per lo strafalcione.

  2. Henri Schmit

    Non si tratta di problemi statistici, e le statistiche non forniscono risposte ai problemi, ma solo risposte numeriche precise a domande basate su concetti precisi. La naturalizzazione (lo ius soli) è un diritto “naturale”, le condizioni (di residenza etc) possono essere più o meno esigenti, ma poi la cittadinanza è dovuta. Ultimamente si è fatto il contrario, non solo in Italia ma anche in Francia: il diritto di voto è stato concesso a chi possiede la cittadinanza ma non reside e non paga le tasse (ius sanguinis); l’errore più grave solo i collegi “esteri” invece di far votare i cittadini non residenti nei luoghi di ultima residenza. A monte di questo c’è il problema dell’immigrazione (trattato altrove), a valle quello dell’integrazione (a prescindere dalla cittadinanza). Mi hanno colpito due interviste pubblicate recentemente in Francia (dove esistono grandi communità nord-africane, africane, asiatiche, perfettamente integrate, fino ai posti nel governo), non razzisti, non di destra, la prima di un ex-preside di un liceo nella periferia nord di Marsiglia, l’altra di uno storico che confronta la religione islamica ad altre culture o ideologie: 1. http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2017/08/30/01016-20170830ARTFIG00283-islamisme-a-l-ecole-les-verites-sans-fard-d-un-ancien-principal-de-college.php 2.
    https://www.herodote.net/histoire/synthese.php?ID=2200&ID_dossier=482#video. Non si può parlare di questo alla leggera.

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