La riforma della pubblica amministrazione resta al centro delle priorità del governo. Spetterà al riconfermato ministro Madia portarne a termine l’attuazione, un compito più semplice se si accoglieranno suggerimenti e consigli, anche per correggere qualche difetto.

Un segnale di continuità

La riforma della pubblica amministrazione è al centro anche del programma del nuovo Governo Gentiloni. Una scelta inevitabile, considerata l’unanime considerazione secondo cui il funzionamento della macchina pubblica deve essere migliorato.
La riconferma della titolare del Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione, Marianna Madia, è un segno evidente di continuità, probabilmente considerata necessaria soprattutto per correggere i difetti della legge 124/2015, bocciata dalla Consulta con la sentenza 251/2016. In molti si aspettavano, al contrario, un deciso cambiamento della guida del ministero: la sentenza della Consulta era apparsa come una sonora bocciatura dell’operato della ministra.
Il nuovo premier Paolo Gentiloni, invece, investe ancora sulla medesima squadra, che ora ha due compiti estremamente delicati. Il primo è convocare urgentemente la conferenza Stato-regioni per acquisire le intese con le regioni, mancate nei mesi scorsi per correggere i decreti legislativi relativi alla riforma della dirigenza medica, alla riforma delle partecipate e al licenziamento dei “furbetti del cartellino”. Il secondo compito riguarda la complessiva riforma della pubblica amministrazione, da adottare in Consiglio dei ministri entro il prossimo mese di febbraio.

Una questione di metodo

 Non c’è dubbio che se il timoniere alla guida della riforma della Pa rimarrà invariato, la rotta dovrà però essere fortemente modificata, almeno se si intende avere riforme utili ed efficaci.
In fondo, la sentenza della Consulta che ha bloccato sul nascere la riforma della dirigenza, non è stata che l’ultima conseguenza di un modo di procedere troppo poco disposto ad ascoltare e accogliere indicazioni e critiche sul merito tecnico delle scelte (e non sulla necessità delle riforme). Gli staff governativi autori dei decreti legislativi attuativi della legge 124/2015 hanno regolarmente ignorato quasi del tutto le molteplici e molto spesso fondatissime osservazioni proposte ai testi non solo dalle regioni e dai comuni, ma soprattutto da Corte dei conti e Consiglio di stato. Il quale ultimo aveva evidenziato la necessità di un’intesa con le regioni, proprio a proposito della riforma della dirigenza.
Risulta necessario modificare, dunque, l’atteggiamento di chi scrive le riforme. Ovviamente, redigere testi normativi rispondenti agli indirizzi riformatori e, al contempo, ossequiosi dei tanti principi costituzionali e di regole operative complicate, non è facile. Tuttavia, il computo di organi come il Consiglio di stato, specificamente previsti dalla Costituzione, è quello di supportare proprio nella funzione di redazione delle leggi: lo scontro frontale, il rifiuto aprioristico delle valutazioni critiche sul merito delle riforme sin qui perseguito dai riformatori, come si nota, non giova a nessuno.

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Da dove ripartire

 La revisione del decreto legislativo sui “furbetti del cartellino”, ritenuta urgente per evitare di bloccare i procedimenti disciplinari, potrebbe essere un terreno di valutazione di un clima diverso. Nessuno ha dubitato dell’opportunità di una norma che rendesse più evidente la violazione gravissima di chi attesta falsamente la presenza in ufficio. Del decreto (d.lgs 116/2016) non convincono, però, i termini troppo ristretti per giungere al licenziamento e le troppe lesioni ai principi del giusto procedimento. Correggere queste storture, fonti sicure di un contenzioso infinito, sarebbe un buon segno.
Anche la riforma complessiva della Pa è un banco di prova. L’accordo governo-sindacati del 30 novembre dà la direzione: smontare i contenuti della riforma Brunetta del 2009 e rafforzare la contrattazione a scapito delle regole unilaterali pubblicistiche. Un obiettivo rischioso: le amministrazioni non sono particolarmente abili nella contrattazione, perché i condizionamenti politici sono troppi. Per altro verso, gli organi di controllo, come i servizi ispettivi del Mef o la Corte dei conti, difficilmente considerano legittimi, sul piano della spesa, contratti di secondo livello nei quali si esplichi in maniera ampia l’autonomia negoziale.
La riforma, allora, si mostrerebbe in grado di cambiare strada se, accanto all’aumento del peso della contrattazione, risolvesse l’equivoco della convivenza di regole civilistiche e pubblicistiche, che alla fine crea mostri, come i paradossali vincoli finanziari proprio alla contrattazione decentrata o i blocchi delle assunzioni. Per una riforma utile, occorrono regole semplicissime per determinare gli spazi finanziari; non più di tre indicatori per la produttività (tempi di conclusione dei procedimenti, tempi di pagamento, rispetto dei criteri per gli equilibri di bilancio); e modificare i controlli, non servono quelli successivi. Se ancora si intende sottoporre i contratti alle verifiche della Corte dei conti, risulta necessario che le sezioni di controllo si esprimano sulle ipotesi di contratto prima della sottoscrizione, onde evitare l’immenso contenzioso in atto, che genera sanatorie malriuscite come il “salva Roma”.

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