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Crisi brasiliana: perché non è tutta colpa di Dilma

La procedura di impeachment nei confronti della presidente Dilma Rousseff si innesta sulla peggiore recessione attraversata dal Brasile negli ultimi venticinque anni. Urgono riforme e una seria azione di contrasto alla corruzione: due obiettivi difficili da realizzare senza una leadership politica.

Verso una nuova “decada perdida”?

Il Brasile è al centro di una profonda crisi politica ed economica. Dopo Lula, è Dilma Rousseff a trovarsi nell’occhio del ciclone. Le accuse sono pesanti: manipolazione dei conti pubblici e utilizzo di fondi neri. Se nelle prossime settimane il Senato approverà gli atti d’accusa, Rousseff verrà sospesa per 180 giorni. La presidenza della repubblica verrà assunta dall’attuale vicepresidente Michel Temer, che potrebbe rimanere in carica sino alle prossime elezioni.
Dilma Rousseff ha già dichiarato che farà di tutto per opporsi a tale scenario. Il rischio è l’assenza di una guida politica proprio nel momento in cui il protrarsi di una profonda recessione richiede una incisiva azione di governo su più fronti.
A partire dallo scorso anno il paese è precipitato in recessione. Il Pil è calato del 3,8 per cento, un risultato che verrà replicato (Fondo monetario internazionale) anche quest’anno, prima di tornare a crescita zero nel 2017.
In poco più di due anni vengono vanificati molti dei progressi conseguiti sul fronte della lotta alla povertà e alla diseguaglianza. Secondo la Fondazione Getulio Vargas se le previsioni per il 2016/17 dovessero essere confermate, il reddito pro-capite si ridurrà del 10 per cento tra il 2014 e il 2017. Un calo superiore a quello registrato tra il 1981 e il 1984, nei primi anni della cosiddetta “decada perdida”.

Dal sogno all’incubo

Eppure il decennio in corso avrebbe dovuto essere una nuova “età dell’oro” (The Economist). Cosa è accaduto per trasformare in modo così drastico lo scenario macroeconomico?
Sicuramente i fattori esterni hanno fatto la loro parte. La fine del super-ciclo delle materie prime, di cui il Brasile è esportatore, ha esercitato un freno alla crescita. Così come il rallentamento dell’economia cinese, che nel corso di pochi anni è diventata il principale mercato di sbocco dell’export brasiliano. Da ultimo, la graduale restrizione monetaria della Fed ha innescato un ri-direzionamento nei movimenti di capitale. Tuttavia, le esportazioni nette stanno contribuendo positivamente alla formazione del Pil. E nello stesso tempo, gli investimenti diretti esteri continuano ad affluire.
Le cause della recessione vanno quindi ricercate altrove. I consumi privati – a lungo sostenuti da una dinamica salariale (soprattutto nel settore pubblico) disallineata rispetto alla crescita della produttività e dal credito al consumo – sono in flessione da due anni. Gli investimenti privati stanno letteralmente crollando (-12 per cento sia nel 2015 che nel 2016). Il calo della domanda privata interna non può essere controbilanciato da una politica fiscale espansiva, in quanto la situazione della finanza pubblica rimane vulnerabile.
Gli ultimi dati pubblicati dal Fondo monetario internazionale parlano chiaro. Nel 2016 il deficit pubblico è elevato (9 per cento del Pil). Al deficit primario (di poco inferiore al 2 per cento) si associa un servizio sul debito pubblico che sfiora l’8 per cento del Pil, frutto di un debito pubblico non enorme (76,3 per cento nel 2016) ma in crescita (60,4 per cento nel 2013), su cui vengono pagati tassi di interesse elevati. Agli inizi di quest’anno il rendimento del decennale ha sfiorato il 17 per cento, dopo che le tre principali agenzie di rating hanno modificato il giudizio nei confronti del debitore sovrano brasiliano, cui viene ora attribuito un rischio default non piccolo.
Per invertire la rotta diventa necessario ridurre la spesa pubblica primaria (pari al 33 per cento del Pil). Operazione tutt’altro che semplice, considerato che buona parte della spesa pubblica è vincolata a provvedimenti legislativi che hanno valenza quasi-costituzionale. Per di più, un’ampia fetta della spesa è indicizzata all’inflazione (attualmente pari al 9 per cento).
Urgono riforme che favoriscano un ritorno agli investimenti – anche in infrastrutture. E che consentano di riavviare la crescita della produttività (anche attraverso interventi sul mercato del lavoro che riducano il peso del settore informale, stimato in ragione del 15 per cento del Pil).
La soluzione della crisi richiede quindi anche riforme strutturali. Operazione non semplice in tempi normali, ma che diventa ancora più difficile considerando che Temer rischia di essere un “presidente dimezzato”. Non gode di ampia popolarità (quasi il 60 per cento dei brasiliani chiede per lui l’impeachment come per la Rousseff) e rischia di essere implicato in scandali per fenomeni di corruzione.
Un segno evidente del fatto che nei prossimi mesi la lotta alla corruzione dovrebbe essere posta in testa all’agenda di qualsiasi governo, per restaurare un minimo di fiducia nella classe politica da parte di un’opinione pubblica ormai esasperata.

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  1. Francesco

    Il grosso errore di tutta la sinistra sudamericana nella ultima decada, è stata il farsi sedurre dalle idee di Chavez e della rivoluzione bolivariana, e la ricetta per comprare la permanenza al potere è stata assicurarsi i voti delle classi meno abbienti dando loro denaro, attraverso generosi aumenti salariali, assunzioni nel settore pubblico fuori controllo, riduzione “popolare” delle tariffe (gas, luce…), nazionalizzazioni di imprese, forti imposte al settore produttivo
    Il tutto sostenuto da una demagogica visione della società e della politica, che divide il mondo tra “noi” e “loro”, la sinistra che ricerca la giustizia sociale, e loro, la destra che ha sfruttato per decenni il popolo, noi che abbiamo la verità, loro che agiscono solo a copertura delle multinazionali e del potere economico.

    Il tutto coperto dall’afflusso di capitali degli ultimi dieci anni, i più ricchi in assoluto di tutta la storia della regione.
    Lo stesso in Argentina, Ecuador e in proporzione in Uruguay, del mitico e inconsistente presidente Mujica.

    Negli ultimi dieci anni in tutta la regione sono stati costrutiti centri commerciali, non fabbriche o infrastrutture…

    Da notare che gli unici paesi che hanno fatto una politica anticiclica sono stati Cile e Peru , che sono i paesi nella rgione che hanno un PIL in aumento anche in quest anni di crisi modiale.

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