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Aiuti di stato, una scomoda sentinella

La Commissione europea si è opposta a una soluzione attraverso il Fondo interbancario di tutela dei depositi per le ormai famose quattro banche locali italiane in base alla disciplina degli aiuti di stato. Ed è stata una scelta corretta. Le tentazioni di una politica industriale “interventista”.

Le ragioni del divieto

Un convitato di pietra siede a fianco di molte dispute che hanno contribuito ad accrescere le tensioni tra il governo italiano e la Commissione europea, la disciplina degli aiuti di stato. È infatti appellandosi al divieto di questi aiuti che la Commissione europea si è opposta all’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare le quattro banche locali poi poste in liquidazione a fine novembre, con le perdite dei capitali investiti da azionisti e obbligazionisti subordinati. Nei prossimi giorni si aprirà a Bruxelles il dossier Ilva, per comprendere se i contributi pubblici che hanno permesso all’acciaieria di proseguire le proprie attività e avviare le prime fasi di bonifica ambientale siano da considerare come aiuti di stato, e quindi non possano essere erogati. Altri dossier, in modo forse meno appariscente, hanno passato il vaglio severo degli aiuti di stato, come il piano per lo sviluppo della rete a banda larga o i sussidi alle fonti rinnovabili.
È quindi utile richiamare le ragioni e i principi di questa disciplina, per uscire dalla logica degli schieramenti e comprendere se, da Bruxelles, arrivino interventi e freni impropri o invece uno stimolo a calibrare l’intervento pubblico secondo logiche di efficienza.
La disciplina degli aiuti di stato si applica a tutte le forme di intervento pubblico diretto, attraverso trasferimenti, sussidi, strumenti di agevolazione fiscale e altro, che abbiano un impatto sui costi delle imprese creando artificialmente un vantaggio nei confronti di altri concorrenti che ne risultano invece esclusi. È quindi evidente che sono i più tradizionali strumenti della politica industriale, oggi tentata da una nuova primavera, a finire sotto la lente degli aiuti di stato.
Le regole comunitarie non implicano un divieto assoluto, poiché si riconosce che queste forme di intervento diretto possono avere giustificazioni che le riportano nell’alveo delle valutazioni di efficienza cui sono chiamate tutte le politiche dell’offerta, dall’antitrust alla regolazione alla politica industriale. Alla base di un intervento diretto deve tuttavia esserci un ben individuato fallimento di mercato, quale per esempio una esternalità ambientale, l’incapacità dei soggetti privati di realizzare investimenti che abbiano come risultato un vantaggio generale, la garanzia di obiettivi pubblici quali la stabilità e la difesa del risparmio. A partire da questi fallimenti del mercato, le forme di supporto pubblico debbono realizzarsi nel modo meno distorsivo possibile, sia per entità dei contributi erogati che per la non discriminazione nell’accesso a questi, e operando in modo residuale dopo che altri strumenti siano stati adeguatamente utilizzati.
Rimane tuttavia un margine di flessibilità nel bilanciare i diversi effetti, che ha portato, a seconda delle fasi del ciclo economico, a una applicazione più o meno stringente. Il caso forse più evidente è proprio quello delle crisi bancarie, dove un elemento forte riguarda l’impatto sistemico di un fallimento.
Nelle fasi drammatiche della crisi finanziaria del 2008-2009, il timore di un effetto a catena, che partendo dal fallimento di una azienda di credito avviasse un collasso generale del sistema del credito, ha portato ad allentare notevolmente i criteri per salvataggi attuati con fondi pubblici. Consentendo aiuti pubblici per 238 miliardi di euro (8 per cento del Pil) alla Germania, 42 miliardi di euro (22 per cento del Pil) all’Irlanda e interventi superiori al 5 per cento del Pil ad Austria, Paesi Bassi e Portogallo.
Quanto gli interventi siano stati giustificati da un reale timore di crisi sistemica e quanto invece abbiano consentito di includere tra le aziende di credito beneficiarie istituti di piccole dimensioni incapaci di innescare effetti a catena, è un punto di difficile valutazione, che comunque finora non è stato adeguatamente indagato. Ma l’impressione di una fase di vacanza delle regole, di fronte alle priorità di tenuta del sistema, ha sicuramente buoni argomenti a cui appoggiarsi.

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Rischi di un eccessivo interventismo

Venendo alle vicende di casa nostra, nonostante il Fondo interbancario di tutela dei depositi sia alimentato dai contributi di aziende di credito private, e non gestisca quindi fondi pubblici, la Commissione ha ritenuto che la natura obbligatoria dei contributi, unita alla governance del Fondo e al ruolo di autorizzazione della Banca d’Italia, configurassero un organismo finalizzato a perseguire obiettivi di natura pubblica e non guidato da logiche puramente private. Il salvataggio delle quattro banche, inoltre, andava al di là della mera tutela dei depositanti, cui il Fondo è destinato, rafforzando la convinzione di uno strumento attraverso cui le politiche pubbliche utilizzavano fondi privati per finalità proprie. La natura locale di queste banche, infine, rendeva poco plausibile l’innescarsi di effetti a catena. Da qui il divieto, secondo la disciplina degli aiuti di stato.
Ritengo che questi argomenti abbiano un fondamento, e il confronto con il trattamento ben più lasco di cui altri paesi europei hanno beneficiato nei primi anni della crisi, pur difficile da digerire, non modifica la bontà degli argomenti: aver peccato di lassismo in passato, non è buon argomento per proseguire su questa strada.
Sempre che si giudichi la strada condivisibile. E da questo punto di vista ritengo che la disciplina degli aiuti di stato sia un presidio imprescindibile per evitare che le nuove sirene della politica industriale riportino l’orologio venti anni indietro, dando nuova vita a vecchi fantasmi come l’Iri.
All’interno del governo si colgono approcci e impostazioni differenti, che ad esempio sono apparsi evidenti nelle vicende delle nuove reti a banda larga di cui abbiamo spesso discusso su queste pagine. Nell’ultimo anno si sono di volta in volta presentate impostazioni fortemente interventiste, che conferivano a Metroweb e alla società Infratel del ministero dello Sviluppo economico un ruolo di campione nello sviluppo delle nuove infrastrutture, quasi in competizione con gli operatori privati. E altre visioni che invece immaginano un rapporto di complementarietà, con il pubblico che investe dove i privati non hanno un ritorno sufficiente – le aree a fallimento di mercato – e che invece lascia campo libero a questi ultimi, eventualmente rafforzandone l’investimento con incentivi selettivi, nelle aree più sviluppate. Il passaggio a Bruxelles dei piani italiani ha sicuramente rafforzato questa seconda impostazione. Ma l’impressione è che ne rimanga sotto la cenere una più interventista e, ogni tanto, dia un bagliore.
Anche se a volte la disciplina appare amara e indigesta, meglio che le sentinelle degli aiuti di stato rimangano allerta.

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*Una versione di questo articolo è disponibile anche su www.tvsvizzera.it

 

 

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  1. bob

    …c’è chi la polvere la lascia ben in vista e chi la nasconde sotto il tappeto. Ma la polvere sempre c’è!

  2. Tom

    Dunque le banche grandi – di rilevanza sistemica non pagheranno mai – mentre le piccole si. E dividere i too big to fail!? Non ci si pensa nemmeno….

  3. enrico baffi

    Con riferimento all’ILVA mi sembra che si possa parlare di esternalità ambientale. Deve per questo l’ILVA eliminarla? Per decidere se un’esternalità deve essere corretta, come in questo caso, si dovrebbe vedere chi è arrivato prima: l’ILVA o i residenti dei quartieri vicino alla fabbrica? Se si dovesse ritenere che l’ILVA aveva diritto a produrre la nuisance, l’aiuto nei suoi confronti sarebbe un aiuto per i vicini. Tuttavia la regola del “coming to the nuisance” non deve valere sempre, come insegna la giuseconomia. Il problema è discusso dal 1960, da quando Coase pubblicò il suo articolo. Ma, allora come si fa a decidere se ci sono aiuti di stato?

  4. Massimo Matteoli

    Con tutta sincerità non so come si possano definire “aiuti di stato” dei pagamenti fatti da privati. Non si può certo invocare l’interesse pubblico alla tutela del risparmio, visto che ogni banchiere intelligente, se vuole continuare a fare affar,i ha un chiaro interesse “privato” a garantire i propri clienti, attuali e futuri. Il punto, però, non è questo. Non penso che la decisione finale a Bruxelles sia stata presa sulla base di questo dibattito teorico. Al contrario in questa vicenda vedo poco mercato e parecchia politica: il nostro paese non si decide a voler ridurre il deficit ed allora dopo la campagna di Grecia si dà il via a quella d’Italia. Non a caso si parte dalle banche , colpevoli per la Bundesbank del gravissimo “crimine” di avere troppi titoli di stato italiani in bilancio. Non è complottismo, né fantapolitica, basta leggere quello che scrivono gli ambienti vicini a Scauble o l’intervista dello scorso dicembre di Lars Feld al Corriere http://www.corriere.it/…/dovrete-colpire-i-risparmi…., che definire “brutale”è un eufemismo. Non è nemmeno antieuropeismo, al contrario saranno questi folli sacerdoti dell’ austerity che se non si fermeranno porteranno l’Unione alla rovina . Fino ad oggi il “potere della parola” di Draghi (anche ieri all’opera) ha impedito il peggio, ma quanto ancora potremo durare se non seguiranno fatti concreti, cioè più sviluppo e soprattutto più occupazione?

  5. Grazie all’intervento governativo si è creato il panico tra i risparmiatori, non hanno più fiducia nelle banche. Il risparmio è sempre stato in Italia un punto di forza, ci è ricorso lo stato per il suo indebitamento, le banche per finanziare le imprese. Oggi, vista la perdita di fiducia nelle banche, i risparmiatori si sentiranno sicuri solo con lo stato, le imprese cosa faranno?
    Il risparmio deve essere tutelato sempre, proviene dal reddito già tassato e non consumato, esso è il motore dell’economia. Oggi questo motore è stato rotto dal,governo.

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