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Il dilemma della flessibilità in uscita

Il governo ha affrontato con prontezza la questione della rivalutazione delle pensioni dopo la sentenza della Consulta. Più complessa è la partita della flessibilità in uscita. Che certo darebbe alcuni vantaggi ai lavoratori. Ma aumenterebbe la spesa pensionistica, almeno in un primo momento.

Progressività e indicizzazione
Con la sentenza della Corte costituzionale, che al tie-break ha bocciato la sospensione dell’indicizzazione voluta dal governo Monti per gli assegni previdenziali più elevati (quelli di tre volte superiori al minimo), la partita delle pensioni è ritornata sul tavolo del governo.
Dopo solo 18 giorni, il governo Renzi ha fatto la prima mossa, approvando un decreto che prevede la restituzione una tantum di 2 miliardi e 180 milioni a 3,7 milioni di pensionati. Il governo si è mosso con rapidità tra vincoli giuridici e vincoli di bilancio. Ha immolato il cosiddetto “tesoretto”, ma ha scelto di non aprire l’intera voragine nei conti pubblici che un’applicazione ampia della sentenza della Corte costituzionale avrebbe creato (secondo alcuni calcoli oltre i 12 miliardi di euro). Infatti, la restituzione prevista dal decreto è solo parziale. Non viene restituita tutta l’indicizzazione pregressa e ne vengono completamente esclusi circa 650mila pensionati – quelli con un assegno di sei volte superiore al minimo.
Da un punto di vista economico, è una scelta condivisibile. In pratica il governo Monti aveva deciso di tassare con un’aliquota pari al 100 per cento l’indicizzazione per tutti i percettori di pensioni di tre volte superiori al minimo. Il governo Renzi mantiene l’aliquota al 100 per cento per chi ha una pensione di sei volte superiore al minimo e la riduce per tutti gli altri, introducendo quindi un elemento di progressività nella tassazione dell’indicizzazione.
Da un punto di vista politico, malgrado il tono di alcune dichiarazioni, la partita si è rivelata ancora più semplice. Aumentare gli assegni previdenziali è da sempre un buon viatico verso un elettorato anziano come quello italiano. Doversi muovere a causa di un vicolo giuridico imposto dalla (ottuagenaria) Corte costituzionale consente di non attribuirsi colpe agli occhi dell’elettorato più giovane. L’elemento di progressività introdotto nel decreto testimonia poi lo sforzo di equità intragenerazionale e l’esistenza del tesoretto consente anche di non dover tagliare le risorse altrove – con buona pace di chi sul tesoretto voleva metterci le mani.
La flessibilità in uscita
Ben più complessa, sia da un punto di vista economico che politico, si presenta invece la partita della flessibilità in uscita.
Partiamo dall’aspetto economico. Chi ha già un po’ di primavere, e la memoria lunga, ricorderà che la flessibilità in uscita era prevista dalla riforma Dini del 1995 per coloro i quali sarebbero andati in pensione con il sistema contributivo. In questo caso, l’età minima di pensionamento era fissata a soli 57 anni (è utile ricordare che nel 1995 il 50 per cento degli lavoratori italiani nel settore privato a 58 anni era già in pensione). Ma il pensionamento anticipato, rispetto all’età normale di 65 anni, comportava una forte riduzione, calcolata in base a coefficienti attuariali, della pensione annua. Per contenere la crescita della spesa previdenziale, le riforme degli anni successivi hanno progressivamente ridotto la flessibilità in uscita sia per chi è andato in pensione con il retributivo (quasi tutti) che con il contributivo (fin qui ben pochi). Nel 2014, l’età media di pensionamento per i lavoratori del settore privato è così arrivata a 62,5 anni.
Come nel 1995, anche oggi ci sono buone ragioni – di salute, familiari, economiche – per credere che un po’ di flessibilità in uscita potrebbe dare vantaggi ai lavoratori. Ma è meglio non farsi troppe illusioni. Affinché il sistema previdenziale continui a essere sostenibile, il pensionamento anticipato deve essere associato a forti riduzioni dei benefici previdenziali, che molti studi calcolano tra il 6 e l’8 per cento annui. Inoltre, l’età della flessibilità disegnata nel 1995 dalla riforma Dini (57-65 anni) andrebbe aggiornata per tener conto dell’aumento dell’aspettativa di vita, che in questi vent’anni può essere stimato attorno ai quattro anni.
La flessibilità in uscita piace molto anche a sindacati e imprese, tra le quali molte sarebbero contente di spingere i lavoratori più anziani – e magari meno produttivi – verso la pensione anticipata. È un fenomeno ben noto, già ampiamente utilizzato in passato, quando generosi assegni di anzianità furono conferiti ai pensionati-baby, e che ha contribuito ad aumentare enormemente la spesa previdenziale durante gli anni Ottanta. Tuttavia, anche l’introduzione di una flessibilità in uscita “giusta” (ovvero attuarialmente equa), nel breve periodo incrementerebbe la spesa previdenziale, poiché aumenterebbe il numero delle pensioni immediatamente erogate, seppur rendendole meno generose. È l’esatto contrario di quanto fatto con successo in gran parte delle riforme dal 1995 a oggi, quando si è provato a chiudere le finestre che conducevano al pre-pensionamento proprio per ridurre la spesa previdenziale corrente.
Dal punto di vista politico, è difficile credere che un governo a cui stanno a cuore i giovani possa voler aumentare nuovamente la spesa corrente in pensioni. Soprattutto quando non c’è neanche la Corte costituzionale a imporlo.
Questo articolo è disponibile anche su www.tvsvizzera.it

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12 commenti

  1. Claudio Flamigni

    Credo che qualsiasi discorso serio richieda come premessa il non nascondere la realtà attuale. Io (settore pubblico, classe 1956) potrò andare in pensione solo a 67 anni e 5 mesi di età (oppure con 43 anni e otto mesi di contributi, obiettivo impossibile da raggiungere prima dell’età pensionabile per chi si è laureato e negli anni ’80 ha dovuto affrontare una prima fase di disoccupazione intellettuale o precariato). Sono comunque un privilegiato nei confronti di chi, più giovane di me, è già previsto che dal 2050 possa andare in pensione solo con 69 anni e nove mesi di età oppure con 46 anni di contributi. Perciò per favore non parliamo di pensioni a 62,5 anni di età come se non fossero un privilegio oramai appartenente al passato.

    • dean

      Mi piace il ragionamento di Carlo. Io, settore pubblico, classe 1965, il problema non ancora me lo pongo, troppi anni. E però nel mio ufficio vedo quelli classe 1956, beninteso entrati col diplomino a 25 anni (e non con la laurea a 30): Sembrano degli zombies, alcuni non fanno praticamente nulla, con buona pace del dirigente di ruolo (ragazzino senza né arte né parte che, intanto, becca 100 mila euro l’anno), rancorosi ed invidiosi dei loro predecessori che sono andati in pensione con meno anni (di servizio e di età) e con trattamenti migliori di quelli che avranno loro fra due-tre anni. Non è un bello spettacolo, soprattutto se penso ai tanti giovani disoccupati che, laureati e masterizzati, sono a spasso . . .

  2. Luigi Musolla

    La flessibilità in uscita ancora oggi riguarda la stragrande maggioranza di pensionati con il retributivo ed è quindi vergognosa 8e costosa). E’ invece sacrosanta nel caso del contributivo stabilendo un minimo di pensione che deve essere raggiunto (3/4 volte quella sociale?) perchè lascerebbe la scelta al singolo in base alle sue priorità e necessità. Per i pensionati che andrebbero con il retributivo avrebbe senso solo se ricalcolando la loro pensione con il contributivo questa raggiungerebbe comunque una buona percentuale del retrbutivo (ad es. vado in pensione con il retributivo a 1000 euro al mese, il ricalcolo del contributivo darebbe almeno 750-800 euro).resta comunque un aumento nel breve della spesa complessiva ma darebbe all’età pensionabile un aspetto più equo.

  3. Savino

    Sistema contributivo da subito e retroattivamente per tutti ed elargizione solo dei contributi effettivamente versati. Basta con i furbetti delle pensioni. C’è gente che non ha versato un contributo in vita propria e adesso pretende pure l’indicizzazione dallo Stato. Questo è egoismo puro, senza pudore.

    • QualeWelfare

      ..ma basta anche con questa retorica del contributivo come unico sistema giusto ed equo..lo sa che le pensioni erogate della Social Security nei liberalissimi Stati Uniti hanno un collegamento debolissimo con i contrbuti versati e che, giusto per far un altro esempio, la pensione di base olandese è completamente scollegta dai versamenti contributivi…giusto per riflettere…e perchè l’equità non è solo quella attuariale..

  4. Roberto

    Eppure io, e molti come me, chiediamo di anticipare l’uscita dal mondo del lavoro a nostre spese! Ho iniziato a lavorare a 17 anni: fatti tutti i conti mi si dia la possibilità di andarmene anche a 57 anni con un assegno adeguatamente ridotto. Tutta l’incombenza a mio carico purché mi lascino andar via. Anche con 1200 euro al mese anziché 1800, va bene! Mangeremo pane e cipolle ma allo stato non chiediamo nessun esborso ulteriore. E lasceremmo liberi migliaia di posti di lavoro …

  5. elisa

    Noi donne che abbiamo dai 55 ai 65 anni abbiamo già lavorato per oltre 35 anni, molte di noi hanno allevato figli ed ora hanno genitori anziani spesso ammalati o disabili in casa o nipotini da accudire. Ebbene ora l’opzione donna è chiusa e tutte dovremmo lavorare fino ai 67 anni, contemporaneamente sostituire lo Stato nell’assistenza agli anziani e ai bambini. Il secondo aspetto riguarda la disoccupazione giovanile che è molto più elevata rispetto al 50% riportato dai media, l’uscita flessibile consentirebbe ai giovani di entrare nel mondo del lavoro e alle aziende di risparmiare e di avere un personale più moderno. Quindi ci sono tutte le premesse per una buona scelta anche se con le penalizzazioni ma è necessario che si faccia in fretta per evitare che il nostro Paese sprofondi sempre di più nell’immobilismo e nella sfiducia.

  6. Carlo

    Ho l’impressione che si voglia andare verso l’assicurazione privata. Quello che sta accadendo, IMHO porta a questa conclusione
    Le rendite che l’INPS paga sono effetto di leggi. L’assicurazione è obbligatoria ed i contributi sono stati prelevati forzosamente. Vedo poco spazio per incolpare i pensionati della situazione attuale. Semmai volessi individuare un colpevole mi rivolgerei verso la ricerca del consenso elettorale. Nel mese di febbraio 2015 il Debito Pubblico è aumentato di €15 Miliardi e non certo a causa delle pensioni e l’evasione ed elusione fa registrare cifre analoghe a quelle della spesa pensionistica.

  7. Giovanni Teofilatto

    Per una nuova politica dei redditi.
    Le qualità del lavoratore e anche del capitale non sono più in grado di garantire quella richiesta eccessiva di produttività con il conseguente riduzione salariale che dovrebbe essere ripartito sulla collettività attraverso un ottimo sistema di capitalizzazione delle “misere” somme versate dai lavoratori e anche attraverso l’intervento di fondi pensionistici di forma “pubblic-company” in un sistema dei salari di attività legati all’indice delle Borsa Valori. In altre parole pi+ tasse per la ricchezza concentrata e minore spesa pubblica potrebbe essere utile al sostegno dei redditi.

  8. Massimo Gandini

    L’architrave della riforma Fornero è il superamento ,di fatto, delle pensioni di anzianità che erano il vero elemento destabilizzante del sistema previdenziale e rendevano l’età di pensionamento effettiva in Italia straordinariamente bassa. Per superare questo scoglio occorrono tantissime risorse che non ci sono. E’ uno dei tanti privilegi insostenibili che gli attuali pensionati hanno scaricato sulle generazioni future che ne devono sopportare l’onere. E’ dei uno dei tanti motivi per cui la recente sentenza della corte costituzionale appare francamente ripugnante

  9. Stefano

    Perche non immaginare anche un sistema di partime facoltativo ma disponibile per chi negli ulti anni di vita lavorativa vuole iniziare a lavorare e guadagnare meno per dar spazio a parita di costi per una azienda a qulche giovane disoccupato? Un partime di accompagnamento alla pensione.

  10. QualeWelfare

    Conclusione solo in parte comprensibile: benchè nel medio-lungo periodo e in condizioni di espansione economica il numero dei posti di lavoro disponibili in un’economia non sia fisso, il rapidissimo irrigidimento dei requisiti per il pensionamento (anzianità e specialmente vecchiaia per le riforme Sacconi 1&2 e Fornero), che non ha eguali in altri paesi europei, ha condotto ad oggi a un significativo effetto “old in, young out” – +1 mlione di occupati 50-64, – 1 milone nella fascia 15-34. Forse un po’ di flesibilità può fare bene anche alle prospettive dei giovani sul mercato del lavoro.

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