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Buoni propositi: la riforma del terzo settore

Nella delega per la riforma del non profit è evidente l’impegno di comporre un quadro organico dell’economia sociale. I dubbi vanno dalle coperture finanziarie al potenziamento dell’offerta di servizi nel welfare, fino al rapporto con i territori.
LA DISCUSSIONE SUL NON PROFIT
Seppur in ritardo sulla prevista tabella di marcia, il 6 agosto il ministro Poletti ha presentato il disegno di legge delega di riforma del terzo settore, che l’11 settembre, con l’assegnazione alla Commissione affari sociali della Camera, ha iniziato il suo iter parlamentare. Il disegno di legge contiene una serie di proposte per una riforma complessiva delle diverse discipline riguardanti le organizzazioni non profit, redatte anche sulla base di una consultazione pubblica a cui hanno partecipato – dal 13 maggio al 13 giugno – 1.016 soggetti. Le proposte del Governo e i documenti pubblici della consultazione si inseriscono in una più generale discussione sulle caratteristiche e sulle prospettive delle organizzazioni non profit, che ha preso spunto dai risultati del censimento Istat dell’industria e dei servizi 2011 nella parte relativa alle istituzioni non profit. E dentro questa discussione sulle caratteristiche di fondo ed evolutive delle organizzazioni non profit si trovano parecchi spunti per leggere anche criticamente le proposte di riforma del Governo Renzi contenute nel disegno di legge delega.
In estrema sintesi le linee di azione su cui intende muoversi il Governo sono quattro:
a) la revisione della disciplina in materia di associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro con il riordino di tutte le disposizioni vigenti anche di carattere tributario e della normativa sulle Onlus;
b) un ripensamento e un rilancio complessivo dell’impresa sociale;
c) una nuova disciplina del servizio civile nazionale;
d) un ripensamento delle misure di sostegno delle organizzazioni non profit a partire dalla disciplina del 5 per mille
Nella loro genericità, si tratta di una serie di principi guida abbastanza condivisibili sui quali la maggior parte degli interventi delle istituzioni e degli studiosi si è espressa con favore, pur con alcune puntualizzazioni. Principi e criteri che dovranno tuttavia tradursi in decreti legislativi sui quali il Governo si riserva di adottare comunque disposizioni integrative e correttive entro dodici mesi dalla loro entrata in vigore.
RISORSE SCARSE E LEGAMI COL WELFARE
Sebbene nel testo del Ddl appaia evidente l’impegno di fornire un quadro organico dell’economia sociale, sia da un punto di vista civilistico, sia normativo, è sul versante delle coperture finanziarie dei provvedimenti in cantiere che si sono concentrate le più forti perplessità dei commentatori. Il rischio evidente è che questi provvedimenti attesi da anni dalle organizzazioni non profit rimangano solo buoni propositi proprio per i limiti di copertura finanziaria soprattutto in riferimento al servizio civile universale, alla stabilizzazione del 5 x1000 e più in generale alle misure fiscali di vantaggio. Solo per fare un esempio, il disegno di legge all’articolo 6 comma 1 punto f) prevede per le imprese sociali “misure agevolative volte a favorire gli investimenti di capitale” e l’istituzione di un “fondo rotativo destinato a finanziare a condizioni agevolate gli investimenti in beni strumentali materiali e immateriali” finanziato nel 2015 con soli 50 milioni di euro ottenuti sostanzialmente riducendo autorizzazioni di spesa su altri fondi. Ma non è solo sul versante finanziario e degli impegni di spesa che l’impostazione generale dell’iniziativa riformatrice – che ha l’obiettivo meritorio del superamento della visione residuale delle attività non profit con il riconoscimento della sua soggettività anche dal punto di vista economico – può arenarsi. Da più parti si è infatti osservato che un effettivo salto di qualità nella visione del non profit da parte del legislatore sia possibile solo considerando gli stretti legami esistenti tra riforma strutturale del settore e gli ambiti del welfare (sanità, sociale/assistenza, istruzione/formazione, previdenza). Gli istituti del welfare scontano tuttora una forte componente assistenziale come integrazione del reddito con un utilizzo improprio e inefficace dei sussidi economici. La tradizionale opzione di monetizzazione del bisogno dovrebbe invece lasciare il campo a un effettivo potenziamento dell’offerta di servizi per handicap, formazione, sostegno alla maternità e all’infanzia, servizi per l’affido e adozioni nazionali e internazionali. In questo senso l’ipotesi, contenuta nel Ddl, di incrementare logiche di voucherizzazione risulta più una scorciatoia che una soluzione strutturale. Oppure si pensa di aumentare la competizione con le imprese for profit attraverso la privatizzazione di alcuni servizi (per esempio, scuola e sanità)?
TERRITORI E VALUTAZIONE SOCIALE
Una terza area di criticità riguarda questioni più squisitamente di assetto istituzionale. Un serio ripensamento delle policy a favore dell’economia civile si articola necessariamente su due livelli: uno squisitamente nazionale (legislazione, politiche fiscali, servizio civile) e uno importantissimo a livello locale (regioni ed enti locali). Considerando le leggi del 1991, la legge 328 del 2000, passando per fondamentali interventi su settori specifici come la legge 68/1999 sul collocamento mirato disabili, fino ad arrivare alle programmazioni sanitarie e sociali, le istituzioni non profit sanno bene che i veri protagonisti e responsabili del loro sviluppo sono i territori. Un pieno dispiegarsi di logiche riformatrici, in questo come in altri ambiti, è possibile solo con una piena responsabilizzazione delle autonomie locali e in linee di indirizzo relativamente omogenee (per esempio, accreditamento delle strutture e verifica della qualità dei servizi).
Infine, per quanto riguarda la parte dei possibili interventi per favorire il “decollo dell’impresa sociale”, il Ddl riprende l’impostazione delle proposte avanzate sul tema dagli onorevoli Stefano Lepri e Luigi Bobba, con alcune importanti integrazioni. Se appare unanime il consenso sulla necessità di ampliare i settori economici in cui operano le imprese a “nuove materie di particolare rilievo sociale” come il commercio equo e solidale, l’housing sociale, l’inserimento lavorativo dei disoccupati, il microcredito, oppure sul punto relativo alla necessità di una definizione più estensiva del concetto di lavoratore svantaggiato, su altri aspetti, come il limite minimo di ricavi derivanti dal mercato o quello relativo alla distribuzione circoscritta degli utili, inserendo per la prima volta la possibilità di avere un ritorno sul capitale sociale, anche la consultazione ha evidenziato l’esistenza di punti di vista più diversificati. Ad esempio, la previsione di un fondo rotativo destinato a finanziare a condizioni agevolate gli investimenti delle imprese sociali appare più debole rispetto alla creazione di fondi regionali, costituiti anche attingendo al Fers come propone Eurisce. Rimane comunque fondamentale, per una reale efficacia dei finanziamenti agevolati, l’introduzione di modelli di valutazione sociale che vadano oltre i tradizionali indicatori che rischiano di produrre una selezione avversa negli interventi più difficili.

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  1. giancarlo

    Del non-profit fano parte anche le ONG della Cooperazione internazionale. Non leggo mai analisi approfondite sui milioni che spendono in azioni che le riflessioni della CE hanno definito di scarsa efficacia.
    Sarebbe indispensabile che un soggetto terzo indagasse non solo sui risultati deludenti da esse conseguito, ma anche sulle ruberie perpetrate da Diocesi, Organizzazioni umanitarie, personale espatriato, etc…

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