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CONTROTEMPO. L’ITALIA NELLA CRISI MONDIALE

Pubblichiamo per i nostri lettori un estratto del libro di Salvatore Rossi “Controtempo. L’Italia nella crisi mondiale” (Laterza, 208 pagine, 15 euro). Anche la crisi ha colto l’Italia e la sua economia in quel controtempo che da anni ci caratterizza rispetto agli altri paesi avanzati. Ma stavolta ai rischi si associano le opportunità. Purché il nostro paese sappia realizzare le necessarie riforme di ordine culturale prima ancora che normativo. E nello stesso tempo rinsaldare e valorizzare i fattori di equilibrio, come l’alto risparmio delle famiglie e la solidità delle banche.

 

Nel concerto dei paesi avanzati l’Italia e la sua economia suonano in controtempo da molti anni. Almeno dai primi anni Novanta, forse addirittura dagli anni Settanta. In quegli anni più remoti, mentre le imprese degli altri s’ingrandiscono, le nostre iniziano a rimpicciolirsi, ponendosi in una condizione che si rivelerà svantaggiosa successivamente. Vent’anni più tardi, all’avanzare della globalizzazione, noi restiamo attardati in una specializzazione settoriale da paese sottosviluppato; mentre gli altri sfruttano la rivoluzione tecnologica per diventare più produttivi e arricchirsi, noi stentiamo a mantenere l’efficienza e il tenore di vita medi, accrescendo solo le disuguaglianze sociali; di fronte al progredire nel mondo della liberalizzazione e della privatizzazione delle parti pubbliche dell’economia noi indugiamo neghittosi, per la ostinata resistenza di chi teme di perdere potere economico ed elettorale; dello sviluppo della finanza innovativa non cogliamo gli aspetti che più ci servirebbero a far evolvere l’assetto proprietario e dimensionale delle nostre imprese.
 
L’ITALIA NELLA CRISI GLOBALE
 
Ora ci piove addosso la crisi globale e ci coglie nuovamente in controtempo. Ma stavolta ai rischi si associano delle opportunità, come proverò a sostenere. La crisi è globale in un duplice senso: non risparmia alcun aspetto della vita economica e sociale, dalla finanza più sofisticata alle code dei disoccupati davanti agli uffici di collocamento; investe tutto il mondo, a cominciare dalla potenza militarmente ed economicamente egemone fino ai paesi più poveri e marginali.
L’Italia è stata colpita da questa crisi, come tutti gli altri paesi, sulle prime quasi senza accorgersene, poi con progressivo sbigottimento. Si rincorrono, da noi come altrove, i paragoni storici con altre crisi recessive del passato: i primi anni Novanta, la metà degli anni Settanta, il temibile ’29. La caduta del Pil che si prefigura per il 2009 è ben più grave di quelle osservate negli anni peggiori delle prime due crisi citate; potrebbe essere dell’ordine di grandezza osservato al tempo della Grande Depressione. Ma dei semplici confronti statistici a distanza di decenni sono futili, ogni epoca ha sue peculiarità non riproducibili. La caratteristica dell’epoca presente, per l’Italia, è la debolezza strutturale del suo sistema produttivo, a cui si stava forse trovando un parziale rimedio quando la crisi è divampata. Questo libro nasceva originariamente proprio dalla volontà di documentare, sulla stregua di alcune ricerche condotte in Banca d’Italia, questo faticoso processo di ristrutturazione del sistema delle imprese. L’intenzione era di fare professione ragionata – evidenze alla mano – di ottimismo.
Ma ora la questione diviene un’altra: che sta succedendo ai germogli di ristrutturazione del sistema produttivo italiano sotto questa terribile grandinata? Stanno gelando? Oppure resisteranno ed esploderanno in una gran primavera fiorita dopo che la grandinata sarà passata, magari ancora più robusti di quanto non s’annunciassero, perché fortificati dalle avversità climatiche? Se prevarrà il primo caso, fare professione di ottimismo diviene un compito davvero improbo, praticamente impossibile. La società italiana, è vero, ha mille risorse e intelligenze, tante volte esibite nel passato, capaci di farle fare dei balzi di progresso materiale e morale: è accaduto al tempo della prima grande ondata di industrializzazione a cavallo fra il XIX e il XX secolo, è successo ancora col “miracolo economico” dei due decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. In entrambi quegli episodi il Paese seppe cogliere il segno dei tempi nuovi, nelle tecnologie dominanti come nell’apertura degli scambi internazionali, e vi reagì creativamente, costruttivamente. Stavolta, dagli anni Novanta, di fronte alle novità rivoluzionarie delle tecnologie digitali e della globalizzazione, l’Italia e la sua economia fanno fatica.
La società è avviata su un crinale demografico di invecchiamento progressivo. L’invecchiamento è anche psicologico. Vasti strati della società sembrano in preda a paure crescenti: paura del nuovo, del dinamico, dell’avventuroso; sembrano piuttosto ansiosi di tutele, di assistenze, di protezioni; non osano, sonnecchiano tranquilli nell’agio di un benessere ritenuto acquisito per sempre.
Come tutti i grandi cataclismi questa crisi può provocare distruzioni gravi, ma può anche creare occasioni di rigenerazione. Di certo essa rimescolerà le carte nel mondo, scompaginerà assetti consolidati di vantaggio competitivo. Potrà avviare al declino alcune economie e proiettarne sul proscenio delle altre. Per noi, la crisi può offuscare le tante piccole paure diffuse e innescare una metamorfosi salutare. Una metamorfosi abbisogna di agenti lievitanti: lo potrebbero essere quegli altri segmenti della società, della imprenditoria, delle generazioni giovani che si affacciano ora sul mercato del lavoro, che restano attenti al nuovo, che sono disposti a correre rischi calcolati, a sperimentare, a rimettersi periodicamente in gioco.
 
IL LAVORO E LA LEGGE
 
La forza e il vantaggio competitivo di una economia stanno nella capacità di aumentare nel tempo la ricchezza e il benessere dei suoi attori, generando ogni anno un flusso di reddito consistente e crescente. Il reddito prodotto è il valore che quella economia è capace di aggiungere alle materie prime di cui dispone o che si procura all’estero, facendone dei “beni” (materiali come un’automobile o immateriali come un concerto di violino) che siano desiderati e venduti profittevolmente su un libero mercato, oppure somministrati dal governo ai suoi cittadini. Questo valore aggiunto lo creano le donne e gli uomini con il loro lavoro, i cui frutti vengono incorporati nel bene. Il processo di creazione del reddito e della ricchezza attraverso il lavoro, in un regime di libertà economica e civile, deve potersi svolgere in un quadro di regole e istituzioni che ne riconoscano e accettino le peculiari modalità di funzionamento, in modo da renderlo fluido ed efficiente.
Organizzazione del lavoro e assetto giuridico-istituzionale sono i due campi in cui il nostro paese deve attuare le riforme più profonde. Tutto il resto segue da lì. Sono riforme di ordine culturale prima ancora che normativo. Quei due campi appaiono distanti fra loro e in realtà lo sono, ciascuno ha avuto il suo sviluppo storico, ha i suoi protagonisti, i suoi luoghi topici. Ma a volte s’intersecano.
C’è un tema di attualità in questo momento in Italia in cui i due malfunzionamenti fondamentali di cui parlo – il ruolo spesso anacronistico del sindacato e la distanza del diritto dai problemi prioritari della società – si sono mostrati in tutta la loro evidenza e si sono rinfocolati l’un l’altro: il lavoro precario. La rapida diffusione del precariato in Italia è dipesa dal fatto che molte aziende private e amministrazioni pubbliche hanno visto nelle forme contrattuali nuove che venivano introdotte e disciplinate dalla legge una facile scappatoia dalla persistente rigidità delle norme in materia di licenziamento, rigidità acuita dalla inefficienza dei tribunali del lavoro. Percorrere quella scappatoia è stato possibile a causa di entrambi i due malfunzionamenti fondamentali che menzionavo prima, perversamente alleati. Da un lato, i sindacati hanno girato il capo dall’altra parte, occupati in faccende che sembravano ben più rilevanti dal punto di vista della visibilità politica. Dall’altro, il legislatore ha compiuto l’errore tipico figlio della nostra cultura giuridica: ha scritto norme astrattamente coerenti e severe ma se ne è infischiato totalmente della loro applicabilità; le norme sui cosiddetti co.co.pro, pensate per accrescere le tutele nei confronti di questi, hanno in realtà messo nelle mani dei datori di lavoro, soprattutto nella grigia galassia dei servizi (anche pubblici), una pistola carica, consentendo loro di assumere dei neo-schiavi (un po’ come quelli dei primi tempi dell’industrializzazione) semplicemente spacciandoli per liberi professionisti incaricati di realizzare un progetto, certi che mai nessun ispettore del lavoro o sindacalista sarebbe andato a controllare.
È solo un esempio, ma istruttivo. Tornando a ragionare in generale, cambiare lo stato delle cose in questi due ambiti è davvero molto difficile, perché si tratta di deviare percorsi secolari. Ma è una operazione che va iniziata indifferibilmente, soprattutto ora che è sopravvenuta una crisi destinata in qualche modo a cambiare il mondo e la posizione che il nostro Paese vi occupa. Il cambiamento può solo venire dall’interno delle rispettive famiglie culturali – il sindacalismo, il diritto – e può solo essere promosso dalla parte più innovativa e lungimirante dei loro attori. Quelle due famiglie (preferisco chiamarle così, piuttosto che ricorrere a termini più caustici, come caste o corporazioni) dovrebbero generare nel loro seno dei movimenti di opinione, poco importa se inizialmente minoritari, che volgano con fermezza lo sguardo al futuro delle rispettive funzioni, per raccordarle alle tendenze e ai bisogni della società.
 
FATTORI DI EQUILIBRIO NELLA TEMPESTA
 
La grande crisi mondiale di questo inizio di secolo fa rifluire ovunque la produzione e gli scambi, e fa rifluire con essi l’onda falsamente liberista che ha dominato il mondo nei passati tre decenni. È una risacca che risucchia all’indietro tutto ciò che quell’onda spingeva, senza troppo distinguere i valori veri dai valori fasulli: il libero mercato, il predominio del privato sul pubblico, il libero commercio internazionale, fra i primi; gli squilibri nei pagamenti fra paesi e aree, la finanza nelle sue declinazioni avventuriste, la crescita economica fondata sul consumo a debito, fra i secondi.
La risacca coglie il nostro paese mentre faticosamente cercava di recuperare, insieme con i ritardi tecnologici, anche quelli di cultura del mercato e dell’efficienza. È l’ennesimo caso di “controtempo” ma stavolta dobbiamo servircene a nostro vantaggio. Alcune caratteristiche del sistema italiano che la voga precedente faceva sembrare antiquate – l’alto risparmio delle famiglie, banche saldamente basate sulla raccolta di questo risparmio, un assetto di regole e di prassi di supervisione sulla finanza capillari e attente – erano invece, e restano, fattori di equilibrio. Vanno rinsaldati e valorizzati.
La tentazione a cui invece bisogna resistere è quella di attenuare o invertire il processo di recupero dei veri valori del liberalismo, nella sfera politica come in quella economica: il valore del rispetto dei ruoli fra i soggetti della vita pubblica (partiti, sindacati, istituzioni); il valore di un interesse pubblico da misurare pragmaticamente, non da situare nei cieli astratti dell’assoluto giuridico; il valore della libera concorrenza, da tutelare con regole severe e meccanismi applicativi efficienti.
Nel mondo infuria una tempesta che minaccia anche quei valori, non solo i disvalori che vi avevano proliferato accanto. Se manteniamo il controtempo ancora per una battuta, alla fine ritroveremo il tempo giusto.

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DUE GRADI D’ILLUSIONE

  1. Emilio Siletti

    Tutto giusto quanto l’autore scrive ma forse la diagnosi andava approfondita. Negli anni del boom io iniziavo a lavorare come piccolo imprenditore, nessun problema bastava produrre il più possibile e i prodotti si vendevano da soli, poi è venuto il 68 e tutto è cambiato è da allora che si sono messi in evidenza i problemi indicati nell’articolo: sindacati arretrati e diritto specie quello del lavoro, medioevale, cosa sperare se da allora su questi fronti si sono fatti così scarsi progressi? Aggiungerei i controlli, inutile fare tante leggi se poi mancano controlli capillari e continui tanto più che i "furbi" sembrano essere uno stuolo sterminato.

  2. BOLLI PASQUALE

    L’italia non è paese normale: non solo è in controtempo, ma quel che è più grave e drammatico è in contromano.Il paese cammina in tutti i campi in senso inverso:nei campi della cultura, della ricerca,della solidarietà, del diritto, delle Istituzioni, della moralità e della coscienza civile. Gli italiani non sono un popolo,sono soggetti disaggregati su porzioni di territorio diverse,con lingue,costumi e concetti della legalità e moralità altrettanto diversi. Questo nostro paese,purtroppo,deve ancora sforzarsi per unificarsi e formarsi. Chi dovrebbe rappresentarci nelle Istituzioni non è esente da stessi vizi e difetti,favorendo negativi localismi che accentuano sempre più differenziazioni e contrasti. La Politica per servilismo e interesse di parte é la maggiore responsabile di questa grave situazione. C’è possibilità di pensare al controtempo nel campo dell’economia? L’Italia ha necessità di uomini liberi e coscienze civilli perchè soltanto in questo caso potrà camminare nella giusta direzione di marcia evitando i pericolosi contromano che inevitabilmente potrebbero causare gravi incidenti di percorso.

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