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OLTRE LA SOLUZIONE SVEDESE

La crisi attuale ha la stessa origine di quella che ha colpito la Svezia negli anni Novanta. In quel caso, il governo seppe reagire in modo veloce e appropriato, senza costi per il contribuente. Una ricetta valida anche oggi? Il modello svedese può offrire alcune linee guida, ma la politica dovrebbe avere il coraggio di esplorare nuove soluzioni. Servirebbe una risposta coordinata e cooperativa, che però impone necessariamente agli Stati di mettere a disposizione spazi di sovranità nella gestione della politica economica. E per questo appare, purtroppo, lontana.

Nel mezzo di una crisi finanziaria reale, pervasiva e globale, come quella che stiamo vivendo, può essere utile il confronto con precedenti recessioni. Un interessante termine di paragone è la crisi dei paesi del Nord Europa degli anni Novanta, e in particolare il caso svedese.

LA GENESI DELLA CRISI SVEDESE

Le origini della crisi svedese sono riconducibili a un processo di liberalizzazione dei mercati finanziari e creditizi che determinò una riduzione dei tassi d’interesse, incentivando famiglie e imprese a indebitarsi per finanziare consumi e investimenti in immobili e titoli. Questo si tradusse in un boom del mercato immobiliare e azionario. Le aspettative estremamente positive degli operatori in un clima di crescita economica sostenuta, bassa disoccupazione e valore degli asset in costante aumento, spinsero famiglie e imprese a indebitarsi ulteriormente. E le banche aumentarono l’offerta di prestiti, non valutando correttamente il rischio sottostante. L’elevato livello di indebitamento rese gli operatori vulnerabili a shock inattesi sui tassi di interesse. Il crollo del sistema si verificò proprio a seguito di un aumento dei tassi, determinando le prime insolvenze e quindi sofferenze sui prestiti. In breve, le perdite si trasferirono da famiglie e imprese al settore finanziario e creditizio, mettendo a rischio la stabilità dello stesso sistema bancario.

LA SOLUZIONE SVEDESE

La reazione di politica economica si articolò su diversi interventi.Nel settembre 1992, il governo annunciò una garanzia ufficiale da parte dello Stato a tutti i depositanti e a tutte le controparti delle banche svedesi. Non fu fissato alcun limite alla garanzia: l’obiettivo era quello di eliminare il rischio di un fenomeno di “corsa agli sportelli”.
Nel 1993 fu istituito il Bank Support Authority (Bsa): un organismo indipendente col compito di analizzare i bad asset delle banche ispirandosi alla massima trasparenza, fornendo una valutazione rigida e realistica delle perdite attese e della loro capacità di ritornare a produrre profitti nel medio-lungo termine. L’intervento statale fu impostato sul ricorso, per quanto possibile, a soluzioni di mercato basate sull’iniezione di capitale proprio da parte degli azionisti, con il supporto di garanzie pubbliche.
Solo per due istituti, Nordbanken e Gota Bank, fu adottata la divisione in “good bank” e “bad bank”, denominate rispettivamente Securum e Retriva. Gli asset di tali istituti furono quindi scissi in due categorie: quelli solidi e quelli problematici. I primi furono lasciati presso la good bank, mentre i secondi furono trasferiti presso le Asset Management Companies (Amc), esterne alla banca. Il vantaggio di disporre di unità specifiche ad hoc è dovuto al maggior grado di specializzazione di questi istituti e all’arco temporale impiegato per la dismissione degli stessi. Le Amc, propriamente capitalizzate e garantite dallo Stato, potevano aspettare il ritorno a normali condizioni di mercato prima di liquidare i propri asset. Si limitarono così in modo significativo le conseguenze sul sistema del processo di stress selling.
Il culmine della crisi si ebbe nel novembre 1992 con la svalutazione della corona, che ne rappresentò anche il punto di svolta: una politica fiscale e monetaria espansiva, unita alla svalutazione, aiutò la ripresa progressiva della domanda aggregata.

I COSTI DELLA CRISI

Il processo di aggiustamento svedese viene spesso considerato come un modello di successo per la gestione di crisi finanziarie e bancarie: si evitarono casi di bank-run e il sistema creditizio del paese continuò a funzionare senza alcun fenomeno di credit crunch.
Il merito più rilevante del “modello svedese” fu il costo finale, sostanzialmente nullo se non addirittura lievemente positivo, sostenuto dai contribuenti. Tuttavia, i costi macroeconomici furono ingenti con forti ripercussioni sia sul tasso di disoccupazione, che raggiunse l’8 per cento tra il 1991 e il 1993, sia sul Pil, che si contrasse con una media annua pari al 2 per cento.
Per una valutazione esaustiva del modello svedese è perciò importante considerare altri due fattori. Il primo riguarda l’occupazione: per tornare ai livelli pre-crisi ha impiegato quasi quattordici anni. Il secondo riguarda, invece, gli effetti di lungo periodo della politica di salvataggio sul sistema bancario. È importante valutare se abbia generato comportamenti virtuosi, proteggendo il sistema dalla crisi attuale, o se al contrario, abbia incentivato atteggiamenti più rischiosi. L’esposizione del sistema svedese ai titoli tossici sembra ridotta, mentre qualche preoccupazione deriva dall’esposizione degli istituti verso i paesi baltici, che attraversano una profonda crisi economica.  Nei prossimi mesi alcune banche svedesi registreranno cospicue perdite su questi prestiti Ma non dovrebbe esserci alcun problema a livello di sistema in quanto l’esposizione totale degli istituti nei confronti dei paesi a rischio è pari al 10 per cento degli impieghi totali.
In sintesi, i principali elementi che contribuirono al successo della soluzione svedese furono: l’elevato grado di trasparenza nella valutazione dei bilanci delle banche; il ruolo svolto dalle Amc nella liquidazione degli asset tossici; il ricorso per quanto possibile a meccanismi di mercato; la credibilità e velocità dell’azione politica; la politica monetaria e fiscale.

UN CONFRONTO CON LA CRISI ATTUALE

La crisi svedese degli anni Novanta e quella di oggi hanno in comune l’origine, identificata in un processo boom-and-bust generato da una dinamica di over-optimistic lending, alimentata da bassi tassi di interesse, che genera una bolla nel settore immobiliare. In entrambi i casi, lo scoppio della bolla è stato causato da uno shock negativo sui tassi di interesse.
E un richiamo alle misure adottate negli anni Novanta può essere colto in alcune misure del recente “piano Geithner", come il Cap, che subordina la ricapitalizzazione delle banche a test di stress sui loro bilanci; e l’istituzione del Ppif, che in qualche modo ricalca le Amc svedesi.
Nonostante le similitudini, però, restano decisive le differenze. La prima è la dimensione ridotta del sistema bancario svedese, che ha reso possibile l’intervento dello finanza pubblica per ricostruirne la stabilità a breve termine.
Inoltre,un elemento fondamentale della ricetta svedese è stata la crescita della la trasparenza dei bilanci delle banche, che ha permesso di effettuare una stima attendibile delle perdite complessive e far scomparire le banche “Zombie”. Nella crisi attuale, invece, l’ammontare delle perdite è tuttora ignoto: dal 2007 il Fmi ha continuamente aggiornato verso l’alto le stime, che oggi sono arrivate a 3mila miliardi di dollari.
Ma la differenza fondamentale riguarda la struttura del mercato finanziario e, di conseguenza, il grado di diffusione della crisi. Un sistema finanziario relativamente sviluppato e chiuso, come quello svedese, circoscrisse la crisi a un fenomeno locale e la ripresa fu stimolata da misure standard di politica economica, quali la svalutazione. Ora, invece, l’elevato grado di sviluppo del sistema finanziario americano e il suo livello di integrazione a livello internazionale hanno prodotto una crisi di natura globale. E la ripresa non può essere affidata a misure convenzionali, ma richiede una risposta di carattere coordinato a livello mondiale.
Nel caso svedese, l’azione del governo fu immediata e la crisi fu gestita in un clima di piena collaborazione. Oggi, una risposta a livello globale appare di difficile attuazione. Una risposta coordinata sembra ardua anche in aree regionali fortemente integrate come l’Europa, dove, dal lato della politica monetaria, la Bce svolge il ruolo di prestatore di ultima istanza, senza un’autorità fiscale alle spalle, mentre, sul fronte della politica fiscale, la forte interdipendenza economica (e i relativi contagi) e i vincoli di Maastricht, disincentivano il ricorso alla leva fiscale per stimolare la ripresa.
Tutto ciò produce un effetto contrario al caso svedese, minando la fiducia degli operatori economici. Per superare velocemente la crisi, la ricetta svedese può darci delle linee guida, ma la fantasia della politica dovrebbe avere il coraggio di esplorare nuove soluzioni adatte alla prima crisi di natura globale. Una risposta coordinata e cooperativa, che necessariamente imponga agli Stati di mettere a disposizione alcuni spazi di sovranità nella gestione della politica economica sembra inevitabile, ma, purtroppo, lontana.

L’articolo in versione integrale.

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  1. Gianfranco Pitzolu

    Nell’articolo che parla della soluzione svedese, così come nei molti articoli raccolti nel libro curato da Loriana Pelizzon, Il mondo sull’orlo di una crisi di nervi, non ho mai trovato riferimenti ad una possibile soluzione ed in particolare alla possibilità che l’Italia recepisca finalmente la normativa europea in fatto di termini di pagamento che dovrebbero essere effettuati entro un massimo di 60 giorni dalla data Fattura/prestazione del Servizio/prodotto. Questi ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione e di tutte le Grandi Aziende sono peculiari del nostro Paese. Eppure obbligando tutti, a cominciare dal Settore Pubblico, a pagare al massimo entro 60 giorni avrebbe dei benefici immediati, quali: – immettere (chiaramente una tantum) liquidità nel sistema a partire dalle Piccole e Medie Imprese che tutti, a parole, dicono di voler facilitare; – ridurre di conseguenza gli impieghi bancari che finanziano attraverso varie forme queste attività fatturate; – evitare la complessità della sospensione dell’IVA; – altre che saprete trovare …. Grazie per l’attenzione, Gianfranco Pitzolu

  2. Michele Ballerin

    "…mentre, sul fronte della politica fiscale, la forte interdipendenza economica (e i relativi contagi) e i vincoli di Maastricht, disincentivano il ricorso alla leva fiscale per stimolare la ripresa." …Dando quindi per scontato che eventuali incentivi fiscali vadano a pesare sulle finanze pubbliche e non siano invece compensati, ad esempio, da un aumento delle aliquote IRPEF sugli scaglioni più alti e delle imposte sulle rendite finanziarie (cioè dando per scontato, nell’ipotesi, che non si possa ricorrere a quella che personalmente considererei una proposta di politica fiscale "seria", ossia adeguata al momento attuale e degna di un grande partito riformista, o aspirante tale). L’interpretazione è corretta?

  3. martina

    Siete sicuri che si tratti di milioni di SEK e non di miliardi? Non mi ritrovo con i calcoli e anche con i corrispondenti valori in dollari..

  4. Francesco Scaramellini

    Io non mi fido più delle previsioni degli economisti, dei guru, dei banchieri e della B.C.E..

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