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I NUMERI DELL’UNIVERSITA’ DI MASSA

In quarant’anni il rapporto tra laureati e coetanei è passato in Italia dal 5,7 al 40,6 per cento. Aumentato in assoluto e ancor più in rapporto alle coorti di popolazione di pari età il numero di coloro che conseguono la maturità. Mentre la quota di maturi che si iscrive all’università non cambia molto nel tempo. La quota di matricole che consegue la laurea si avvicina oggi al 73 per cento. Un ruolo fondamentale l’hanno avuto le evoluzioni dell’offerta universitaria. E sistemi di finanziamento legati al numero di iscritti e laureati. Ora è tempo di pensare alla qualità.

Lo scorso anno il sistema universitario italiano ha laureato oltre 299mila persone. Coloro che hanno conseguito il titolo al termine del primo percorso formativo (lauree triennali, lauree a ciclo unico e vecchi quadriennalisti) sono stati quasi 249mila. Quarant’anni prima, quando il sistema universitario rifletteva ancora gli effetti di una forte selettività all’accesso, i laureati erano stati poco più di 40mila.

TRE COMPONENTI PER UN RISULTATO

Nell’arco di quattro decenni il rapporto tra laureati e coetanei è passato dal 5,7 per cento al 40,6 per cento, allineando l’Italia ai paesi europei in posizione più favorevole.
Al conseguimento di questo risultato hanno concorso più fattori, solo in parte riconducibili all’offerta universitaria. In particolare, possiamo scomporre il rapporto tra laureati di un anno e coetanei in tre componenti: la prima rappresentativa della propensione a diplomarsi, la seconda della propensione a immatricolarsi all’università, la terza la propensione a laurearsi. (1)

ANNI POP. 19-20 MATURI MATRICOLE LAUREATI
1967 861 168 127 40,2
1972 758 251 213 64,6
1977 886 315 235 76,0
1982 897 347 228 74,7
1987 962 384 260 77,8
1992 870 478 362 96,1
1997 721 485 305 131,9
2002 613 454 331 198,3
2003 594 467 318 231,7
2007 579 464 325 248,6

 

La significativa presenza di studenti fuori corso rende difficile collegare puntualmente il numero dei laureati con l’appropriata coorte di riferimento per classe di età. Pur con questa limitazione, è comunque possibile osservare come le tre componenti individuate giochino un ruolo molto diverso tra loro.
Il numero di coloro che conseguono la maturità è aumentato in assoluto e ancor più in rapporto alle coorti di popolazione di pari età. La crescita della propensione a diplomarsi ha subito una brusca variazione nella seconda metà degli anni Novanta e riguarda ormai quasi l’80 per cento dei coetanei, contro il 22 per cento circa del 1967. La propensione a diplomarsi contribuisce a spiegare tra il 60 e il 70 per cento l’aumento del numero di laureati rispetto alla popolazione di pari età.
Si tratta di una evoluzione strutturale della domanda, innescata dal calo nel numero di figli da mantenere da parte delle famiglie e dall’ampliamento dell’offerta in termini di sedi formative. L’analisi dei dati relativi alla distribuzione dei redditi, soprattutto con riferimento alle famiglie meno agiate, porterebbe invece a escludere evoluzioni significative sulla capacità di spesa di ceti che prima non accedevano all’istruzione superiore. 
La quota di maturi che si immatricola all’università non cambia molto nel tempo, con qualche oscillazione e una tendenza a livelli più elevati negli ultimi anni. La propensione a immatricolarsi fornisce dunque un contributo trascurabile, se non negativo, all’aumento dei laureati.
La quota di matricole che consegue la laurea cresce invece in modo significativo rispetto alle tendenze del lontano passato. Oggi è prossima al 73 per cento, contro un valore introno al 35 per cento che aveva caratterizzato gli anni Settanta, Ottanta e la prima parte degli anni Novanta. La propensione a concludere gli studi spiega tra il 30 e il 40 per cento l’aumento del numero di laureati.

IL RUOLO DELL’OFFERTA UNIVERSITARIA

Dietro questo fenomeno vi sono probabilmente sia mutati atteggiamenti da parte degli studenti che da parte dell’università.
La proliferazione delle sedi universitarie ha ridotto i costi per il mantenimento agli studi, rendendo possibile l’accesso a ceti prima esclusi e attenuando la necessità, per gli studenti meno abbienti, di svolgere un lavoro retribuito per non gravare eccessivamente sulla famiglia d’origine. Negli anni, gli studenti economicamente più deboli hanno dunque potuto dedicare più tempo alla formazione, accelerando il percorso formativo e accrescendo la probabilità di conseguire la laurea.
Un ruolo fondamentale è comunque riconoscibile alle evoluzioni dell’offerta universitaria. L’attuale dibattito sembra ricondurre l’aumento dei laureati, letto anche come decadimento della qualità formativa, alla introduzione della laurea triennale. Se si osservano attentamente i dati si può cogliere come il balzo di oltre il 50 per cento, nel rapporto laureati/matricole, sia avvenuto tra il 1997 e il 2002, ovvero prima che la riforma sfornasse i nuovi titoli. Tra il 2002 e il 2003 l’aumento è stato del 17 per cento, mentre tra il 2003 e il 2007 la crescita ha raggiunto il 7 per cento.
Può essere che ciò sia riconducibile a un “effetto trascinamento” della riforma anche sui vecchi quadriennalisti. Va comunque ricordato che lo stesso periodo è stato interessato da riforme che hanno riguardato sia l’autonomia degli atenei che le modalità di finanziamento, legate non più al semplice fabbisogno, ma anche a indicatori che da subito o in prospettiva rendono i bilanci delle università sensibili al numero di laureati e iscritti in corso – ma non a indici di qualità dei laureati stessi. 
È comunque indubbio il fatto che l’università italiana sia diventata “di massa” a livello di accessi e che lo stia diventando anche a livello di standard formativo.
Ripristinare un significativo riferimento alla qualità appare dunque fondamentale, anche e soprattutto nell’interesse dei laureati: se l’università non fornisce segnali adeguati, la selezione viene traslata sul mercato, che usa strumenti di valutazione molto più rozzi e probabilmente sensibili a criteri extra meritocratici.

(1) L’espressione formale è la seguente:

LAURt/COETtMATURIt-n/COETt-n* MATRICOLEt-n/MATURIt-n  * LAURt /MATRICOLEt-n

Dove: “maturi” rappresenta il numero di diplomati dell’anno t-n, dove n è posto pari a 5 per le vecchie lauree e a 4 per le nuove; “matricole” sono gli iscritti al primo anno di università.
Il numero di coetanei riferito all’età di coloro che si laureano è prossimo al valore delle persone in età tra i 19 e i 20 anni al momento del conseguimento del diploma di maturità e di immatricolazione all’università, indicato con t-n, dove n è riferito alla durata legale degli studi aumentata di un anno (5 anni per le vecchie lauree, 3 anni per le nuove).

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IL PROBLEMA E’ CAPITALE

14 commenti

  1. Michele Costabile

    Complimenti per i dati parsimoniosi e di rilievo sull’evoluzione (implicita e in parte non governata) dell’offerta universitaria. Aggiungerei due commenti. 1) quel 73% di matricole che consegue la laurea non ha – come la domanda di lavoro del resto richiede – uno standard. E guai se lo avesse. Ben vengano le differenziazioni qualitative dei laureati e delle università. Nell’era della varietà perche’ ostinarsi a immaginare una università Ford T Nera? Evviva i "city college" per gli impiegati di medio profilo e per i tanti tecnici che dovranno gestire macchine sempre più intelligenti e complesse; Evviva le università e le "graduate school" blasonate per le lauree magistrali (master degree) di alto profilo (per le "elite"). 2) Per avere un’offerta "pluriversitaria" idonea mancano esattamente gli stessi "aiutini" (nudges) proposti per la scuola: incentivi all’offerta e informazioni alla domanda. In una visione "socialista" delle istituzioni governative – o anche solo riconoscendo la rilevanza pubblica del bene prodotto -, infine, manca anche un equo sistema di sostegno economico agli studenti di talento.

  2. paolo

    Da un articolo del Corriere della sera:"Italia maglia nera per numero di laureati":"La percentuale di laureati dai 25 ai 64 anni è esattamente la metà della media europea: 11,6% contro il 23,2%, il dato più basso di tutta l’Unione(Eurostat).I primi sono danesi (30,9%) e olandesi (32,7%) per i maschi, ed estoni (38,8%) e finlandesi 39,4%) per le donne. In Germania i maschi laureati sono il 27,1% e le donne il 20,3%, in Francia rispettivamente il 23,7% e il 26,0%, in Gran Bretagna il 29,9% e il 29,7% e in Spagna il 28,1% e il 28,3%.L’agenzia Ue sottolinea che il livello di istruzione tende ad aumentare tra i più giovani: in Italia la percentuale di laureati tra la fascia di età tra i 50 e 54 anni e i 30-34enni è aumentata dall’11,8% al 14,1% per i maschi e dal 10,9% al 19,9% per le femmine". In Italia i laureati sono pochi indipendentemente dal tipo di facoltà, sia che si tratti della "iperaffollata" scienze della comunicazione sia che si tratti della "poco" frequentata ingegneria. La qualità è una questione primaria ma anche il servizio scolastico deve ampliarsi ed essere accessibile a tutti, in qualche modo i dati dicono che così non è.

  3. Francesco Pampinella

    Per incentivare gli atenei a puntare sulla qualità dei laureati si potrebbe collegare il finanziamento delle università al numero di laureati che risultano occupati entro un tempo stabilto (per esempio un anno) dalla laurea, piuttosto che al numero di iscritti e laureati.

  4. Felice Di Maro

    Sono nato il 23 febbraio del 1948 e il 23 febbraio del 2008 mi sono laureato in economia presso l’Università Politecnica delle Marche, sede di San Benedetto del Tronto. La qualità che si chiede è giusta ma non basta per un rilancio degli studi. Non posso fare la specialistica in quanto vivo con circa 1100 euro al mese e tolte le spese di affitto, bollette, quando va bene ogni giorno faccio la spesa alimentare con 20 euro. Poichè ho frequentato un corso presso la Sapienza di Roma non posso avere nessuna borsa di studio. Ovviamente farò ricerche per conto mio in quanto avendo 60 anni la mia laurea non interessa a nessuno. Ripeto va bene la qualità ma bisogna cercare di avere un quadro maggiormente articolato sulla domanda da parte dei potenziali studenti. Per quanto mi riguarda bisognerebbe anche affrontare i nuovi fenomemi di longevità. Io non credo nelle università della Terza Età. Credo nell’incontro delle generazioni e soprattutto a livello di studi e di ricerca. Per un anziano assicuro non è facile iscriversi all’università e poi laurearsi. I docenti di oggi non sono quelli degli anni settanta. Oggi sono più preparati ma debbono migliorare nel cogliere i fenomeni politici.

  5. Alessandro Figà Talamanca

    La mia impressione è che, una volta esaurito l’apporto dei laureati del vecchio ordinamento la percentuale dei "first degrees" sul numero dei coetanei si assesterà al di sotto del 40%, e non troppo lontano dal 30%. Infatti presumibilmente ci saranno meno laureati ultraritardatari. In ogni caso l’università italiana ha raggiunto i livelli di università di massa (per di più, attraverso un sistema non differenziato). Il problema ora non è tanto quello di imporre standard altissimi per la laurea, ma piuttosto di diversificare l’istruzione in risposta ad una domanda diversificata. Curare in particolare il 5% migliore dei futuri laureati con un’offerta didattica adeguata e attraverso borse di studio di solo merito (come stanno facendo, in parte, i matematici). Curare anche gli studenti con una formazione preuniversitaria insufficiente, adattando l’insegnamento al loro livello di preparazione. Ripristinare i voti bassi per gli esami e per la laurea, che dovrebbero prendere il posto che aveva, nel vecchio ordinamento, il ritardo nel conseguimento della laurea. L’incentivazione della qualità, insomma, è un problema complesso.

  6. Luca

    Faccio una proposta che può sembrare strampalata. Abbiamo visto che finanziare scuole e università in base al numero di iscritti favorisce la quantità a discapito della qualità. Allora perché non finanziare (o almeno premiare) le scuole e le università in base al risultato? Le si compensi in relazione al reddito dicihiarato da ciascuno dei lavoratori che in passato ha frequentato quella scuola/facoltà. Così saranno spronate ad incrementare la qualità. Negli anni del balzo del rapporto laureati/iscritti, i salotti vespiani&C, si davano un gran daffare a dire che dovevamo raggiungere l’Europa come numero di laureati, ma è davvero questo l’obiettivo da perseguire? Non è meglio puntare sulla qualità? E allora siano premiate le scuole/università che riescono a formare e a dare l’opportunità di un lavoro qualificato.

  7. A.Zaccagnini

    In campo tecnico scientifico le lauree pre riforma erano il più delle volte lauree "pesanti" e di qualità, con un’ovvia distribuzione non omogenea di quest’ultima a seconda dell’ateneo di provenienza. Recentemente, dovendo selezionare personale, ho trovato una certa offerta di lauree brevi del tutto inadeguate alle posizioni da ricoprire e scarsa offerta di neolaureati con laurea "lunga" – con preparazione inferiore (dichiaratamente) rispetto a quella dei laureati "antichi". Cercare di inseguire con i tempi della politica un mercato nazionale e internazionale della mente d’opera che da qualche anno è estremamente variabile e turbinoso mi pare a dir poco futile, anche perche’ a sentire ora certe campane la Cina è piena di "low cost world-class tecnologists" destinati a risolvere i problemi di tutto il pianeta, mentre magari tra due-tre anni si ritornerà massicciamente a impiegare laureati occidentali. Meglio ragionare di indirizzi strategici e decidere in questo campo cos’e’ irrinunciabile e di cosa possiamo fare allegramente a meno, anche in materia di corsi di laurea e indirizzi.

  8. Marco

    Sono uno studente della facolta di economia di Siena, dal frutto della mia esperienza nell’ateneo di Siena e del dialogo con altri laureandi di altre zone d’Italia il problema della scuola italiana sta nel modo in cui avviene l’attribuzione dei voti all’alunno che in questi anni sta diventando "un premio" per l’impegno(ad imparare un libro a memoria) più che un riconoscimento oggettivo di competenze. Ineffetti mi capita spesso di dover spiegare a persone con media vicinissima al 30 (la mia è 26) dei concetti che per me sono basilari per la comprensione di fenomeni piu complessi e dal mio modestissimo punto di vista per essere ammesso al 3° anno di laurea. Per me si deve creare un sistema nel quale sia ben definito che l’università è riservata a poche persone che sono interessate alla materia e che vogliono approfondirla "a livello universitario" e che vogliano arricchiere le loro conoscenze e non solo per trovare un posto di lavoro migliore.. Economicamente si potrebbe incentivare chi ha una media superiore ex. al 24 e disincentivare chi ha voti inferiori, provocando variazioni sul numero degli iscritti e laureati e facendo pagare gli sprechi dell’università a chi li causa.

  9. Angelo

    Dai primi dati (parziali) sulle richieste di immatricolazioni sembra che ci sia stata una forte contrazione della domanda in corsi di comunicazione. Generalizzando, questo rappresenterebbe una risposta spontanea alla crisi occupazionale di chi consegue quella laurea, come altre (es.medicina veterinaria) che vengono scelleratamente "vendute" senza valutare il numero degli occupati o i loro redditi. Si tratta di una politica auto referenziale del sistema universitario, più attento a sostenersi che a dare prospettive reali a chi si impegna negli studi ed al paese che, in fin dei conti, finanzia il sistema. Molti giovani si chiedono perchè impegnarsi negli studi se il loro destino è la delusione reddituale o uno status sociale assai lontano dai modelli in voga oggi. L’Univerità è un investimento per tutti e non solo per chi vi trova occupazione, ma solo se alla base viene svolto un serio lavoro di programmazione, che dia dignità futura ai laureati.

  10. Gian Carlo Presicci

    Come già scritto da altri, quei numeri non rappresentano lo stato di degrado reale del sistema universitario italiano, che, d’altra parte, non fa che rispecchiare il sistema sociale altrettanto degradato. Come per ogni fatto culturale, l’estensione ad un numero maggiore del livello formativo universitario non è stato perseguito innalzando il livello medio culturale delle persone, ma abbassando il livello di richiesta minima necessaria per conseguire il titolo. Come sempre, in un sistema di opportunismi e pigrizie diffuse, si è confuso il diritto all’accesso alla formazione di più alto livello (un tempo precluso per censo) con l’accesso al titolo di studio, anche rinunciando alla formazione. Nel campo della cultura professionale e tecnica, questo deleterio meccanismo ha prodotto negli ultimi 15 anni un vistosissimo arretramento nella capacità di saper fare dei nostri concittadini. Nonostante la buona volontà e l’impegno assoluto, ma singolare anche di moltissime persone. E’ come il dibattersi di tanti pesci presi in una palude la cui acqua inesorabilmente evapora. La formazione dei singoli è demandata a tanti percorsi individuali più o meno fortunati che non fanno sistema.

  11. decio

    La competizione tra un ateneo ed un altro è basata su cose stupide, ad esempio il numero di appelli. Se, ad es., una facoltà di giurisprudenza mette 12 appelli di esame su 12 mesi, avrà più iscritti e sicuramente più trasferiti di un’altra che ne mette 6 su 12 mesi. Invece di contendersi i migliori professori (come succede all’estero, non solo USA, ma anche Paesi in via di Sviluppo) cosa facciamo in Italia? Lecchiamo i piedi agli studenti per farli stancare di meno (esempio di sopra degli appelli). Perchè i nostri atenei non possono contendersi i professori migliori? Rispota: perchè non importa a nessuno, in quanto l’università è una PA, la PA non può fallire per definizione e non ha metodi selettivi basati sulla responsabilità del recruiter (non esiste in Italia) e quindi galleggia sul mare della mediocrità. Se non ho interessi a pendere i migliori, prendo i peggiori e raccomandati.

  12. Enzo

    Meritocrazia. E’ un termine tristemente famoso con il quale è opportuno familiarizzare fin da subito. Che il sistema universitario italiano soffra da tempo è risaputo, ma non possiamo puntare l’indice solo sulla organizzazione e didattica degli studi universitari. Il problema è strutturale che riguarda tutto il sistema dell’istruzione italiana. In una società dove non si premia il più bravo, dove c’è una costante tendenza ad equiparare le attitudini dei singoli sterilizzando le capacità creative individuali, è diffcile che dia buoni risultati. I dati sulla proliferazione delle lauree (circa 300.000 dottori nel 2008) pongono una serie di interrogativi critici sulle scriteriate riforme avvicendatesi negli ultimi anni. Più rigore e selezione è la ricetta giusta.

  13. antonio p

    Personalmente ho usato (nel lontano 1961-1969) la Soc. Montecatini come Università pratica dove ho potuto incontrare tanti uomini che mi hanno insegnato a lavorare nel mondo tanto che dal 1969 in poi il mio diploma di perito chimico aveva un valore assoluto paragonabile a tutti gli altri delle Università del mondo. La scuola ed in particolare l’università deve essere un obbligo personale per imparare quello che si capisce e si vuole sviluppare senza l’obbligo del pezzo di carta.

  14. Marco

    Al di là dei tecnicismi e dei raffronti internazionali, che rischiano sempre di non prendere in considerazione importanti specificità, credo che l’università di massa rappresenti una sconfitta per la società italiana. Un conto è voler evitare che la cultura sia un privilegio per pochi, asservito al potere economico e ad altre disparità sociali, un conto è illudersi che tutte le persone possano assumere il ruolo di intellettuali o divenire parte della classe dirigente. Credo sia incontestabile il sensibile peggioramento qualitativo dei nostri programmi universitari, dovuto anche alla possibilità di accedere a qualsiasi facoltà a prescindere dai precedenti studi intrapresi. Le vere priorità sono ora l’eliminazione del valore legale del titolo di studio e un impegno per la meritocrazia.

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