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Ragioniamo sui dati

A tre anni dalla sua approvazione, non si hanno ancora informazioni sufficientemente dettagliate per valutare gli effetti della legge Biagi sul mercato del lavoro. Un’indagine di Confindustria indica, nel 2004, un utilizzo poco più che marginale delle forme contrattuali nuove, quali lavoro a chiamata, staff leasing e lavoro condiviso, e del contratto d’inserimento. Le nuove assunzioni sono avvenute nel 50 per cento dei casi con contratti a tempo indeterminato. E poco meno della metà dei contratti a termine è passata a tempo indeterminato.

La legge 30/2003 di riforma del mercato del lavoro (“legge Biagi”) è stata ritenuta da parte di alcuni la principale responsabile della presunta precarizzazione dei rapporti di lavoro in Italia.
La verità è che, ad oltre tre anni dalla sua approvazione, non esistono ancora informazioni sufficientemente adeguate e dettagliate per poter valutare i suoi effetti sul mercato del lavoro.

L’indagine Confindustria

Consapevole di questa lacuna, nel 2005 Confindustria ha promosso un’indagine presso le proprie imprese associate per raccogliere informazioni sul primo anno di utilizzo degli strumenti della nuova legge. All’indagine, riferita al 2004, hanno partecipato oltre duemila imprese con circa 560mila lavoratori alle dipendenze. Pur essendo rivolta prevalentemente al settore industriale, la rilevazione ha coinvolto anche alcune importanti realtà del terziario: 217 imprese con circa 131mila addetti.
Obiettivi principali dell’indagine sono stati: a) verificare se e in quale misura le aziende intervistate hanno utilizzato le forme contrattuali previste dalla legge Biagi; b) valutare l’esistenza e l’entità dei rapporti di lavoro di natura precaria chiedendo alle imprese non solo il numero e la tipologia contrattuale delle assunzioni effettuate nell’anno, ma anche il numero di trasformazioni a tempo indeterminato di precedenti contratti di diversa natura.

L’utilizzo delle forme di flessibilità contrattuale dopo la legge Biagi

L’indagine Confindustria ha raccolto informazioni sulla propensione delle imprese sia verso le forme contrattuali introdotte ex novo dalla legge – lavoro condiviso, lavoro a chiamata, staff leasing, contratto d’inserimento) – sia verso quelle tipologie che, già esistenti nel nostro ordinamento, sono state modificate o ridefinite dalla nuova normativa – part-time, collaborazioni a progetto, somministrazione a tempo determinato, apprendistato. (1)
Le informazioni raccolte indicano, nel 2004, un utilizzo poco più che marginale di quelle forme contrattuali nuove, quali il lavoro a chiamata, lo staff leasing e il lavoro condiviso. (2) Anche il ricorso al contratto d’inserimento è stato molto contenuto: 1,3 per cento del totale addetti.
Nel 2004, naturalmente, l’utilizzo di queste tipologie è stato limitato da un lato dalla scarsa conoscenza delle innovazioni contrattuali da parte delle imprese, dall’altro dall’assenza della necessaria disciplina di dettaglio. (3) Un problema analogo riguarda i rapporti di apprendistato: grazie alle novità introdotte dalla legge 30, rappresentano uno dei principali punti di forza della riforma dal punto di vista dell’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e il mancato decollo nel 2004 (0,4 per cento sul totale addetti) va principalmente imputato ai ritardi nella emanazione delle disposizioni applicative da parte delle Regioni.
Maggiore è risultata invece l’adozione di quegli strumenti normativi che, pur ridefiniti dalla nuova disciplina, erano già noti e utilizzati da tempo. Si tratta innanzitutto dei contratti di somministrazione a termine (ex lavoro interinale) che, nel 2004, hanno riguardato un numero di ore lavorate corrispondenti, in termini di lavoratori equivalenti a tempo pieno, all’1,4 per cento degli addetti. Rilevante appare anche l’utilizzo dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e della nuova forma dei contratti a progetto, il cui ricorso (circa 7.600 persone nel 2004) risulta guidato principalmente dall’esigenza di disporre di risorse qualificate da dedicare ad attività specialistiche ad alto contenuto professionale: il 59 cento dei collaboratori ha infatti più di 50 anni d’età, mentre il 73 per cento risulta in possesso di un titolo di studio superiore (46,1 per cento diplomati; 27,4 per cento laureati).

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Struttura dell’occupazione e comportamenti di assunzione delle imprese

I dati raccolti indicano una struttura occupazionale stabilmente ancorata ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato (oltre il 90 per cento dell’organico aziendale), che rappresentano la forma contrattuale di gran lunga prevalente.
Riguardo ai flussi di assunzione, su un totale di circa 50mila assunzioni effettuate, nel 50 per cento dei casi si tratta di contratti a tempo indeterminato, seguiti da quelli a tempo determinato (39 per cento), formazione-lavoro/inserimento (9 per cento) e apprendistato (2 per cento). Poco meno della metà delle persone assunte come lavoratori dipendenti cominciano quindi a lavorare con un contratto di tipo flessibile; il dato appare sostanzialmente coerente con i risultati diffusi a marzo dalla Banca d’Italia sulla base delle informazioni tratte dall’indagine Istat sulle forze di lavoro. (4) L’analisi della Banca d’Italia è stata malamente interpretata e utilizzata da alcuni osservatori come prova inconfutabile delle condizioni di precarietà del mercato del lavoro italiano. In realtà, per poter parlare di precarizzazione dei rapporti di lavoro non è sufficiente guardare alla quota di persone che iniziano a lavorare con un contratto a termine, ma occorre anche sapere se, alla scadenza del contratto, si procederà o meno ad una trasformazione a tempo indeterminato. I dati Istat pubblicati dalla Banca d’Italia non affrontano direttamente questo secondo punto e non consenteno quindi di trarre conclusioni. Qualche informazione in tal senso può invece desumersi dall’indagine Confindustria: poco meno della metà dei contratti a termine è stata trasformata in contratti a tempo indeterminato nel corso dell’anno. (5) Ciò significa che mediamente un lavoratore assunto a termine ha la prospettiva di diventare a tempo indeterminato entro due anni.
L’indagine mostra inoltre che le imprese fanno ampio ricorso ai contratti a termine come bacino da cui selezionare i futuri contratti a tempo indeterminato: oltre la metà (53 per cento) delle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2004 è infatti in realtà una trasformazione di un precedente contratto di natura temporanea. In particolare, le conversioni hanno riguardato prevalentemente i lavoratori inizialmente assunti con contratto a tempo determinato (48 per cento) e di formazione-lavoro/inserimento (37 per cento ), ma anche ex lavoratori interinali (10 per cento), ex apprendisti (3 per cento) ed ex collaboratori autonomi (2 per cento). L’indagine indica anche che il 54 per cento delle trasformazioni riguarda lavoratori in possesso di un titolo di studio superiore (40 per cento diplomati; 14 per cento laureati). La percentuale di lavoratori con titolo di studio superiore diventa nettamente più elevata (38 per cento con laurea) nel caso di assunzioni a tempo pieno e indeterminato di lavoratori che entrano invece per la prima volta in azienda. Le imprese esaminate, quindi, preferiscono assumere a tempo indeterminato persone che, in qualche misura, risultano già formate o che comunque possono essere “sperimentate” per un adeguato periodo di tempo prima di essere assunte definitivamente. Si tratta di un risultato che conferma precedenti evidenze empiriche. (6)
In conclusione, i dati raccolti dall’indagine Confindustria sembrano smentire la tesi che identifica i lavori a termine con i lavori precari, almeno per quanto riguarda il settore industriale che è quello prevalentemente coperto dall’indagine. Inoltre, come ha sottolineato recentemente Pietro Ichino sul Corriere della Sera, non è corretto accusare la legge di aver dato vita all’utilizzo di forme contrattuali flessibili per l’ingresso di nuovi lavoratori in azienda. (7)
Qualche passo avanti nella valutazione degli effetti della riforma del 2003 potrà comunque essere fatto nei prossimi mesi, quando saranno resi noti i risultati della seconda edizione dell’indagine Confindustria sull’utilizzo della legge Biagi nel 2005.

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* Centro Studi Confindustria. Le opinioni qui espresse non impegnano necessariamente Confindustria.

(1) Per i dettagli si veda Centro Studi Confindustria, “L’utilizzo nel 2004 degli strumenti normativi introdotti dalla legge 30/2003“, gennaio 2006.
(2) Solo il 2,2 per cento delle aziende intervistate afferma di aver fatto ricorso ad almeno una di queste tipologie lavorative nel corso dell’anno.
(3) È il caso, ad esempio, dello staff leasing che è divenuto operativo solo nel corso del 2004. Il 2004 è stato inoltre un anno di rallentamento dell’economia ed ha condizionato negativamente la dinamica occupazionale di molte imprese.
(4) Vedi Banca d’Italia, Bollettino economico, marzo 2006.
(5) Va in ogni caso ricordato che l’indagine Confindustria non è, per sua natura, rappresentativa dell’intera realtà nazionale essendo il frutto della partecipazione (su base volontaria) delle sole imprese associate.
(6) Vedi Cipollone-Guelfi (2003), “Tax Credit Policy and Firms’Behaviour: The Case of Subsidies to Open-end Labour Contracts in Italy”, Banca d’Italia, Temi di discussione n.471, March.
(7) Vedi Ichino P., “Ma i precari non crescono”, Corriere della Sera, 26 aprile 2006.

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Sommario 2 maggio 2006

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  1. Gianluca Cocco

    L’indagine di Confindustria non può certo considerarsi rappresentativa, sia per il fatto che è circoscritta ai propri iscritti sia per la scarsa numerosità del campione. Nella mia regione, la Sardegna, l’80% delle aziende hanno meno di 5 dipendenti, per cui la maggioranza degli imprenditori non hanno niente da spartire con Confindustria!! Tuttavia, se da questa prima indagine risulta che le nuove forme contrattuali hanno avuto una scarsa diffusione presso le aziende, che per dimensione e natura delle attività potrebbero ricorre maggiormente alle stesse, ciò lascia pensare che le aziende degli altri settori non coinvolti nell’indagine ricorrano ancor meno al lavoro a chiamata, allo staff leasing e al lavoro ripartito. Lavoro in un centro per l’impiego e tra le decine di assunzioni che vedo quotidianamente solo una volta mi è capitato di vedere un’assunzione con contratto di lavoro ripartito, peraltro effettuata per dare un’opportunità occupazionale aggiuntiva piuttosto che per effettive esigenze del datore di lavoro. Pertanto, per avere un quadro chiaro dei dati non servirà neppure la prossima indagine di Confindustria, ma è auspicabile che gli osservatori regionali sul mercato del lavoro e il SIL elaborino le statistiche dei singoli centri per l’impiego (anche) per capire gli effetti di una legge adottata senza effettuare alcuna analisi seria sull’opportunità di introdurre forme contrattuali inconcepibili in linea di principio, ossia senza valutare ex ante in che misura, con quali probabilità ogni singolo contratto può costituire un trampolino di lancio verso la stabilità.
    Saluti
    Gianluca Cocco

    • La redazione

      L’idea di Confindustria di condurre un’indagine sull’applicazione di alcuni strumenti della legge Biagi nasce proprio dalla mancanza di rilevazioni ufficiali sull’argomento e dovrebbe servire da stimolo alle statistiche ufficiali a condurre una rilevazione ad hoc o ad adattare quelle esistenti ai nuovi strumenti contrattuali introdotti.
      Non possiamo quindi che concordare con l’idea di promuovere l’utilizzo dei dati forniti dai centri per l’impiego per capire meglio quali, tra gli strumenti contrattuali introdotti dalla legge 30, si stiano dimostrando più utili per l’ingresso delle persone nel mercato del lavoro e quali necessitano invece di modifiche.

  2. Gianluca Cocco

    L’indagine di Confindustria non può certo considerarsi rappresentativa, sia per il fatto che è circoscritta ai propri iscritti sia per la scarsa numerosità del campione. Nella mia regione, la Sardegna, l’80% delle aziende hanno meno di 5 dipendenti, per cui la maggioranza degli imprenditori non hanno niente da spartire con Confindustria!! Tuttavia, se da questa prima indagine risulta che le nuove forme contrattuali hanno avuto una scarsa diffusione presso le aziende, che per dimensione e natura delle attività potrebbero ricorre maggiormente alle stesse, ciò lascia pensare che le aziende degli altri settori non coinvolti nell’indagine ricorrano ancor meno al lavoro a chiamata, allo staff leasing e al lavoro ripartito. Lavoro in un centro per l’impiego e tra le decine di assunzioni che vedo quotidianamente solo una volta mi è capitato di vedere un’assunzione con contratto di lavoro ripartito, peraltro effettuata per dare un’opportunità occupazionale aggiuntiva piuttosto che per effettive esigenze del datore di lavoro. Pertanto, per avere un quadro chiaro dei dati non servirà neppure la prossima indagine di Confindustria, ma è auspicabile che gli osservatori regionali sul mercato del lavoro e il SIL elaborino le statistiche dei singoli centri per l’impiego (anche) per capire gli effetti di una legge adottata senza effettuare alcuna analisi seria sull’opportunità di introdurre forme contrattuali inconcepibili in linea di principio, ossia senza valutare ex ante in che misura, con quali probabilità ogni singolo contratto può costituire un trampolino di lancio verso la stabilità.
    Saluti
    Gianluca Cocco

  3. Fabio Ceteroni

    Siamo alle solite, come rendere elegante con qualche lustrino un abito consunto e vecchio Queste forme di assunzione, sono una forma di precarizzazione che di subordinato hanno la schiavitù di costringere il lavoratore a disattendere al rispetto dei propri diritti. Quale lavoratore andrebbe a far rispettare ad esempio il proprio giorno di riposo….quando il suo esimio Datore di Lavoro gli ventilasse:>. Oramai il lavoratore è considerato alla stregua della materia prima, "la compro dove costa meno"…e se non la trovo posso sempre trovare un succedaneo!Disgustoso, questo non è frutto della globalizzazione, è sempre più spesso frutto di un mondo imprenditoriale senza la capacità imprenditoriale ma solo quella della furbizia e scaltrezza di come aggirare leggi e norme anche quando sono cosi permissive come per la Legge 30.Mi consola, seppure marginalmente, l’idea di come il serpente che mangi se steoo…prima o poi il botto ci sarà. La precarizzazione del lavoro crea insicurezza, e l’insicurezza non "stimola" la crescita..!

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