La coesione tra le parti del sistema può costituire la risorsa decisiva per uscire dalla crisi. Mentre nuvoloni neri si addensano sull’economia italiana già provata da anni di declino, l’unica via di salvezza sembra essere quella di una intesa tra i protagonisti del sistema basata su regole condivise e sulla fiducia reciproca. L’augurio è che Confindustria e sindacati sappiano ritrovare la spinta per una grande scommessa comune sul futuro del paese.

Dalle testimonianze sulla tragica ritirata dell’Armir dalla steppa russa nell’inverno 1942-43 si trae una lezione importante anche a sessant’anni di distanza e in tutt’altra congiuntura. Nell’inferno gelato della “sacca” in cui i nostri alpini erano stati intrappolati dall’esercito sovietico, quelli che si salvarono non furono i più sani e robusti, né i meglio dotati di indumenti e altri mezzi materiali, e neppure i meglio armati. Si salvò soprattutto chi apparteneva a un gruppo solidale, nel quale vigesse la regola dell’operare sempre insieme, “tutti per uno, uno per tutti”.

Il declino come basso tasso di effettività della legge

Oggi è come se l’economia italiana si trovasse intrappolata in una sorta di altra sacca infernale, stretta fra il vincolo del debito catastrofico lasciatole in eredità dai governi degli anni ’80, la concorrenza delle economie più forti nei mercati dei capitali e dei beni, quella dei Paesi in via di sviluppo nel mercato del lavoro; fiaccata dai propri fattori tradizionali di debolezza: un tasso troppo basso di effettività della legge con la conseguente estensione abnorme dell’economia irregolare, dell’evasione fiscale e della criminalità organizzata; un’amministrazione pubblica dispendiosa e poco efficiente; un costo dei servizi alle imprese superiore rispetto agli altri Paesi; un mercato del lavoro ancora in larga parte privo di servizi moderni, capaci di mettere a disposizione delle aziende la forza-lavoro qualificata di cui esse hanno bisogno e di offrire ai lavoratori itinerari agevoli e sicuri verso la buona occupazione possibile. Da questa trappola pericolosa potrebbe salvarsi l’intera nostra economia nazionale, se sapesse trovare in tempi brevi un’intesa di ferro tra i suoi protagonisti su tre o quattro punti fondamentali. Altrimenti – un po’ come nella ritirata di Russia – ne usciranno soltanto quelli che riusciranno a sottrarsi al disastro con un’intesa forte e coraggiosa in sede aziendale, o di categoria; gli altri, quelli che badano soltanto al proprio interesse particulare, quelli del “ciascuno per sé e Dio per tutti”, avranno un’alta probabilità di soccombere.

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Una scommessa comune

Quale intesa? Per tornare competitivi, la ricetta è una sola: serrare le fila e accordarsi sull’investimento comune da compiere. Per sanare le vecchie piaghe nazionali occorrerebbe investire maggiori risorse sul nostro futuro, soprattutto in ricerca, formazione e infrastrutture mancanti; ed eliminare gli sprechi e le posizioni di rendita. Finché non saremo riusciti a sanarle, in molti casi per compensare le nostre tare di sistema l’unica ricetta è maggior rischio e maggior lavoro in cambio di un corrispettivo non immediato (in altre parole: ridurre la parte fissa della retribuzione e aumentare la parte legata alla produttività o alla redditività dell’azienda). Per questo, ovviamente, è indispensabile anche un accordo sulla equa spartizione futura dei frutti della scommessa, quando questa sarà stata vinta; e un accordo di questo genere presuppone un sindacato autorevole e coraggioso, ma soprattutto un contesto di fiducia reciproca e di regole fondamentali condivise e applicate con rigore: una vera e propria cultura diffusa del bene comune, dalla quale nasce l’aspettativa che tutti rispetteranno le regole della scommessa, che chi si sottrarrà allo sforzo collettivo sarà penalizzato.

Un minimo vitale di fiducia reciproca

Questa cultura del bene comune, del rispetto delle regole come “gioco a somma positiva”, questo minimo vitale di fiducia reciproca indipendente dall’essere al governo o all’opposizione, imprenditori o dipendenti, è proprio ciò che oggi manca drammaticamente in Italia. Ed è poco utile stare a discutere di chi ne sia la prima colpa: se di un capo del governo dal condono facile, che dichiara di “comprendere” gli evasori fiscali ed esige prioritariamente dai propri alleati riforme modellate sugli interessi personali propri e degli amici intimi (tutto il resto può attendere), oppure di un’opposizione miope, che dalle colpe del governo trae giustificazione per fare le barricate contro riforme necessarie come quella del sistema pensionistico, o per rifiutare di discutere qualsiasi modifica di un diritto del lavoro vecchio di trent’anni. Ancor più inutile discutere se la colpa è del management che ha lasciato affondare la nostra grande industria, o del sindacato che ne ha ingessato ottusamente le strutture, accettando di negoziare le misure incisive soltanto il giorno prima della dichiarazione di fallimento.

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Il difetto è di sistema; è il sistema a essere malato, non una singola sua parte. Il male può essere curato soltanto se le parti di questo sistema riescono a voltar pagina insieme, ad attivare il “gioco a somma positiva”, mettendo nell’angolo chi in seno a ciascuna di esse fa di tutto per impedirlo. Altrimenti, stabilire di chi è la prima colpa del disastro ci sarà di scarsa consolazione.

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