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Dollaro debole e politica monetaria

Le fluttuazioni nei tassi di cambio determinano trasferimenti di ricchezza tra paesi impensabili fino a qualche decennio fa e il riequilibrio della bilancia corrente americana richiede un deprezzamento del dollaro che appare solo iniziato. Quale politica dovrebbero adottare le autorità monetarie? Interdipendenze finanziarie di così grande scala suggeriscono un coordinamento delle politiche monetarie e di cambio. Ma interventi sistematici sembrano difficili in mercati finanziari altamente reattivi. Luca Paolazzi commenta l’intervento; la controreplica dell’autore.

Spicca un dato fondamentale nel panorama dell’economia internazionale di questi ultimi venti anni. Come illustrato dal grafico qui sotto, dai primi anni Ottanta a oggi, la quota in rapporto al Pil delle passività finanziarie (foreign asset liabilities) degli Stati Uniti verso il resto del mondo è aumentata di più del 400 per cento, arrivando finora attorno all’87 per cento del Pil. (1)
Parallelamente, la quota di attività finanziarie ha raggiunto il 62 per cento , con una posizione netta pari a -25 per cento.

Due perché per un deficit

Questi numeri ci suggeriscono una conclusione semplice, ma centrale. L’economia internazionale è molto più sensibile oggi rispetto al passato alle fluttuazioni dei prezzi delle attività. In particolare, variazioni nei tassi di cambio possono determinare trasferimenti di ricchezza tra paesi impensabili fino a qualche decennio fa.

L’accumulazione netta di passività finanziarie è uno dei due motori principali che hanno guidato l’inasprirsi del deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti americana nell’ultimo ventennio. L’altro fattore, ben noto protagonista soprattutto degli ultimi quattro anni, è il deficit fiscale federale, pilotato dalle recenti politiche espansive dell’amministrazione Bush. Il surplus (deficit) della bilancia dei pagamenti è la differenza tra risparmi (privati e pubblici) e investimenti dell’intera economia. Mentre nei primi anni Novanta l’inasprirsi del deficit aveva natura “benigna” (cioè dipendeva da un’eccezionale dinamica positiva degli investimenti), oggi è guidato da una forte caduta del risparmio pubblico, cioè dall’inasprirsi del deficit fiscale. Ma anche la prima fase benigna, quella del boom dell’information technology e della scommessa sulla nuova economia americana, presenta oggi il conto. Il dato sulle passività finanziarie sottolineato all’inizio non è che l’altro lato della medaglia del boom degli investimenti dei primi anni Novanta.

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Il processo di aggiustamento

Rudimenti di economia internazionale ci suggerirebbero che questo stock di passività finanziarie richieda prima o poi di attivare un surplus della bilancia commerciale, cioè dal lato del saldo tra importazioni ed esportazioni di beni. In un interessante studio, Pierre-Olivier Gourrinchas e Hélène Rey ci dicono invece che le cose non stanno proprio così. (2)
Nel breve e medio periodo il fattore primario che guida l’aggiustamento del conto corrente è quello dei rendimenti attesi sulle attività finanziarie. In particolare, in questo caso, lo spread tra il rendimento atteso sulle attività americane detenute dal resto del mondo e le attività estere detenute dagli americani. In termini ancora più semplici, questo significa un canale di aggiustamento che opera soprattutto tramite variazioni del tasso di cambio nominale. Il riequilibrio dal “lato reale” (cioè della bilancia commerciale, importazioni ed esportazioni di beni) sembra giocare un ruolo solo nel lungo periodo (e, soprattutto, in modo inversamente proporzionale all’aggiustamento dal lato finanziario).

Basti un dato per renderci conto delle proporzioni. Poiché tutte le passività finanziarie detenute dagli americani sono espresse in dollari mentre circa la metà delle attività sono espresse in valuta estera, un deprezzamento del 20 per cento del dollaro (in termini effettivi, cioè in media rispetto al resto del mondo) rappresenta un trasferimento di ricchezza verso gli Stati Uniti dell’ordine di quasi il 7 per cento del Pil.
Le implicazioni sono molteplici. Innanzitutto l’attuale deprezzamento del dollaro appare come un fatto quasi fisiologico. Non solo, ma questa dinamica, dati i numeri in gioco, è solo agli inizi. Molto spesso, per sdrammatizzare la situazione, si paragona l’attuale scenario atteso di deprezzamento del dollaro con quello che avvenne nella seconda metà degli anni Ottanta, considerato quasi neutrale. Appare qui chiaro che gli scenari sono molto diversi. La “via finanziaria” al riequilibrio della bilancia dei pagamenti americana che possiamo attenderci nel futuro prossimo apre scenari di redistribuzione internazionale della ricchezza impensabili fino a venti anni fa.

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Nuovi dilemmi per la politica monetaria

Riconoscere esplicitamente questi “effetti ricchezza” generati dalle fluttuazioni dei tassi di cambio diventa importante anche per la condotta della politica monetaria, sia della Bce che della Fed. In linea di principio, interdipendenze finanziarie di così grande scala suggeriscono ragioni di coordinamento delle politiche monetarie e di cambio. Dall’altro lato, però, per evitare probabili eccessi di turbolenza e distorsione delle aspettative in mercati finanziari altamente reattivi, diventa difficile pensare a una condotta sistematica di intervento sui mercati da parte delle banche centrali. Nuovi, interessanti dilemmi dell’integrazione finanziaria mondiale.

(1) Per attività (passività) finanziarie nette si intende un portafoglio costituito essenzialmente da debito (emesso sia da imprese che dal governo), azioni e investimenti diretti (FDIs).

Per saperne di più:

(2) Si veda P-O Gourrinchas e H. Rey, “International Financial Adjustment”, http://www.princeton.edu/%7Ehrey/ifasept04.pdf.

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Spesa in disavanzo e giravolte politiche

  1. Luca Paolazzi

    Già, ma la gente da fuori può oggi acquistare beni Usa in saldo. Inoltre, il potere d’acquisto dei dollari posseduti non è mutato se si fanno acquisti di merci americane. Infine, comunque non si tratta di trasferimento di ricchezza verso gli Usa, che invece si sono impoveriti (devono svendere le proprie merci e il proprio lavoro), ma di semplice distruzione di ricchezza, come quella che avviene quando crolla una Borsa. Tieni presente che questa distruzione non può essere calcolata semplicemnte applicando agli asset in Us $ detenuti dagli stranieri la svalutazione del dollaro, ma andrebbe ponderata per riconoscere che quella ricchezza non ha mutato valore verso i beni americani e che gli stessi beni amercani, essendo divenuti più a buon mercato in termini di ricchezza espressa in valuta estera, rappresentano un rivalutazione di tale ricchezza, della sua capacità di comandare (come avrebbe detto Adam Smith) beni americani. Perciò la conclusuione sul trasferimento di ricchezza è davvero sbagliata.

    Luca Paolazzi

    • La redazione

      Il commento di P. si focalizza sugli “effetti ricchezza” legati alla perdita/acquisto di competitività via mutamenti delle ragioni di scambio reali. Ma così facendo non coglie lo spirito del pezzo, la cui intenzione era proprio quella di resistere alla tentazione di interpretare gli aggiustamenti di bilancia dei pagamenti con le lenti tradizionali della dinamica dell’import ed export di beni.

      L’idea è far notare che l’ aggiustamento del current account sembra in realta’ avvenire nel breve e medio periodo non attraverso i canali tradizionali a cui si riferisce P., bensì attraverso variazioni dei returns sulle attività finanziarie (per inciso, nel mio pezzo ricchezza va intesa nel senso stretto di “ricchezza finanziaria”). E quindi necessariamente tramite variazioni del cambio nominale. Il punto chiave sta proprio nel currency mismatch tra atttività e passività finanziarie detenute dagli USA. Mentre le passività sono al 100% espresse in dollari (per cui un deprezzamento ne diminuisce artificialmente il valore), le attività sono espresse in valuta estera per meno della metà. Ceteris paribus, e’ difficile negare che un deprezzamento del dollaro non rappresenti un trasferimento netto di ricchezza. E non si pensi che fenomeni di questo genere non abbiano effetti reali. Si pensi solo alla letteratura sull’ “original sin” (peccato originale) che affligge i paesi in via di sviluppo: cioè il vincolo (di credibilità) che li costringe ad indebitarsi sui mercati finanziari internazionali in larga parte in valuta estera. Deprezzamenti (o svalutazioni tout court) della valuta nazionale producono effetti di moltiplicazione del valore delle passività che sono un possibile viatico alle crisi valutarie. Argentini, Indonesiani, Coreani (tanto per citare gli esempi di questi ultimi anni in cui problemi di original sin hanno giocato un ruolo) l’hanno toccato con mano il “trasferimento di ricchezza”. Parafrasando quella letteratura non è azzardato dire che nel caso degli USA si puo’ parlare di original sin al contrario, qusi un “original virtue” (e in effetti, che altro è lo status di valuta di riserva internazionale se non un “original virtue”?).

      Questo non vuol dire che gli effetti di cui parla P. non giochino un ruolo. Certamente il deprezzamento del dollaro si tradurrà in un peggioramento delle ragioni di scambio, e quindi in un aggiustamento della domanda relativa di beni americani. Il pezzo sottolineava semplicemente che questo canale reale (con relativi effetti di benessere) gioca un ruolo solo nel lungo periodo.

      Ringrazio molto Luca della sua attenzione
      Tommaso

  2. Fedele De Novellis

    Il deprezzamento nominale del dollaro implica un aumento del valore in dollari delle attività degli Stati Uniti e quindi costituisce un trasferimento di ricchezza agli americani. Allo stesso modo, si riduce il valore delle attività in dollari Usa detenute dagli stranieri, che subiscono una perdita, misurata nella loro valuta.
    Questo tipo di aggiustamento è però per sua natura una tantum. Non si può pensare che sia persistente. Se difatti si generassero attese di deprezzamento del dollaro queste andrebbero a scaricarsi nel differenziale fra il rendimento delle passività Usa e quello delle attività. Per conseguenza, al miglioramento della posizione netta sull’estero degli Stati Uniti potrebbe non corrispondere un analogo miglioramento della voce dei redditi da capitale.
    Gli effetti finanziari di un aggiustamento via cambio delle partite correnti sono dunque ambigui e probabilmente a lungo andare non favorevoli all’economia Usa. Lo scambio è fra un maggiore valore della ricchezza degli americani e un maggiore tasso d’interesse da pagare sui debiti.
    Poiché un deprezzamento del cambio del 20 per cento aumenta lo stock delle attività Usa del 7 per cento, il guadagno annuo in termini di rendimento di tali attività è di circa lo 0.35 per cento del Pil (ponendo il rendimento pari al 5 per cento). Dato invece uno stock delle passività pari a circa il 90 per cento del Pil, è sufficiente un aumento dei tassi Usa dello 0.4 per cento per compensare tale guadagno.
    Ovviamente, se ci si attendesse per i prossimi anni, poniamo dieci, una svalutazione attesa del dollaro sull’euro del 20 per cento, ne conseguirebbe un differenziale fra i tassi a dieci anni Usa e quelli europei del 2 per cento circa, ben superiore allo 0.5 per cento attuale.
    L’articolo pare però suggerire che vi sia una terza via (e sembra in effetti quella in corso) per cui il dollaro continua a deprezzarsi senza innescare un allargamento importante del differenziale fra i rendimenti della passività Usa e quelli delle attività. In termini più semplici, il resto del mondo continua a detenere titoli Usa accettando le perdite che conseguono dalla svalutazione del dollaro (o, meglio, non attendendosi ulteriori importanti svalutazioni del dollaro). Svalutare in questo modo è ovviamente molto conveniente per gli americani. Poco conveniente per gli altri.
    Questo meccanismo poggia su una condizione in parte di natura convenzionale: il mondo continua a detenere attività Usa in dollari perché non sconta un ulteriore deprezzamento del dollaro. E’ sotto tale ipotesi che un dollaro che si svaluta comporta con certezza un trasferimento di ricchezza agli americani.

  3. Massimiliano Mandia

    Cara Lavoce,
    la svalutazione artificiale del dollaro, potrà dare un pò di fiato all’export Usa, ma non contribuirà più di tanto a ridurre il deficit commerciale. Una politica di deficit spendig non è sostenibile, perchè finanzia debito con altro debito e questa “spirale perversa” causa instabilità sia nelle finanze pubbliche che in quelle private. L’ amministrazione Bush, dovrà abbandonare la strada del dollaro debole, anchè perchè i debiti delle famiglie hanno raggiunto una soglia critica. Fortunatamente la Fed, con la stretta graduale, renderà la situazione meno incandescente, evitando eventuali “scoppi di bolle”.

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