La nuova legge elettorale dovrebbe eliminare le liste bloccate e favorire un riavvicinamento tra eletti ed elettori; semplificare il quadro politico senza comprimere la rappresentanza ma consentendo processi riaggregativi di sensibilità politiche tra loro compatibili; mantenere una competizione di tipo bipolare. Tutto ciò si può ottenere adattando al nostro paese il sistema del voto alternativo. Garantirebbe maggiore qualità nel processo di selezione delle candidature. E porterebbe all’abbandono del premio di maggioranza, sconosciuto in tutte le grandi democrazie

L’inconcludente dibattito parlamentare sulla riforma elettorale presenta due errori, che sono a un tempo di metodo e di merito. Il primo è l’idea che non sia necessaria una normativa realmente nuova, ma basti qualche “iniezione di botox” al modello vigente, mentre il secondo errore, assai più grave, è tentare di dar vita a un sistema costruito su esigenze di breve periodo, quando servirebbe uno sforzo per rinnovare alla radice i principi della rappresentanza politica.

TRE CARATTERISTICHE ESSENZIALI

Per giungere a tale obiettivo, il sistema dovrebbe presentare le seguenti caratteristiche:

  • Eliminare lo scandalo delle liste bloccate e favorire un riavvicinamento tra eletti ed elettori, in una chiave di responsabilizzazione e controllo;
  • Semplificare il quadro politico senza comprimere la rappresentanza, ma consentendo processi riaggregativi di sensibilità politiche tra loro compatibili;
  • Mantenere viva una competizione di tipo bipolare.

Molte sono le vie per ottenere uno o due di questi punti, ma è difficile riuscire a realizzare l’insieme delle finalità indicate. Fortunatamente non siamo all’anno zero e si può utilmente riflettere su sistemi vigenti in contesti democratici diversi dal nostro. A tale proposito, l’attenzione mi è caduta su un modello in apparenza minore: il voto alternativo. E su questo ho lavorato per adattarne le regole al contesto italiano, riprendendo lo spirito del disegno di legge 2312 presentato ormai due anni fa da Stefano Ceccanti e Pietro Ichino, dal quale mi differenzio in taluni punti.

IL VOTO ALTERNATIVO

Il voto alternativo è usato in alcune significative realtà: la Camera dei rappresentati australiana, le presidenze indiana e irlandese, il leader del Labour Party britannico, nonché vari governi cittadini degli Stati Uniti. Pertanto, ancorché poco noto, si tratta di un sistema non irrilevante, retto da una filosofia semplice: ottenere in un solo turno i benefici di una competizione a doppio turno.
Nella variante italiana, il modello australiano potrebbe essere adottato con alcuni aggiustamenti:
1. I 630 seggi della Camera dei deputati andrebbero attribuiti su 475 collegi uninominali, mentre dei rimanenti 155 seggi, 12 andrebbero assegnati alla circoscrizione estero e 143 attribuiti con recupero proporzionale su base nazionale;
2. Ogni candidato di collegio dovrebbe sottoscrivere l’appartenenza a una lista nazionale per il riparto proporzionale;
3. In ciascuno dei 475 collegi l’elettore dovrà indicare una prima preferenza e eventualmente una seconda. Il candidato che consegue il 50 per cento di prime preferenze verrebbe eletto. Il sistema in questo caso funzionerebbe come un classico plurality all’inglese;
4. Nel caso in cui nessuno dei candidati dovesse ottenere il 50 per cento di prime preferenze, allora sarebbero esclusi tutti gli altri candidati eccetto i primi due e le seconde preferenze degli esclusi ripartite, come in un ballottaggio. Il candidato risulterebbe eletto con il 35 per cento dei voti tra preferenze dirette e ripartite;
5. I collegi nei quali nessun candidato raggiunga almeno il 35 per cento sarebbero riassegnati con riparto proporzionale circoscrizionale e previo scorporo dei voti utilizzati per eleggere i deputati nei collegi uninominali. Questo favorirebbe l’accesso alla rappresentanza ai partiti territoriali e a quelli di media dimensione;
6. I 143 seggi del recupero proporzionale andrebbero ripartiti con la formula d’Hondt. Al recupero sarebbero ammesse le liste che abbiano ottenuto almeno il 4 per cento nazionale o un totale di 6 eletti in almeno 2 circoscrizioni, con una procedura di assegnazione dei seggi sulla base dei più alti quozienti elettorali di collegio.
Al Senato della Repubblica il sistema potrebbe funzionare allo stesso modo, con la sola esclusione di una lista nazionale, in coerenza con quanto stabilito dalla Costituzione che dispone una elezione “su base regionale” e quindi la quota proporzionale andrebbe attribuita solo regionalmente.

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TUTTI I VANTAGGI

Rispetto al doppio turno alla francese, proposto (tra gli altri) da Tito Boeri, Vincenzo Galasso e Tommaso Nannicini nel loro intervento su lavoce.info dello scorso 30 agosto, il modello che propongo presenta alcuni vantaggi. Innanzitutto, consente di ottenere in un colpo solo il risultato che si raggiunge con il secondo turno e questo aspetto non solo favorirebbe un risparmio economico (votare una volta costa meno che votare due), ma eviterebbe il gap di legittimità che può comportare l’essere eletti in un ballottaggio con una affluenza sensibilmente inferiore rispetto al primo turno. Inoltre le forze politiche dovrebbero impegnarsi da subito a schierare candidati trasversali e attrattivi almeno nei collegi più competitivi, con una prevedibile maggiore qualità nel processo di selezione delle candidature.
La previsione di una parte proporzionale è legata a una preoccupazione di ordine democratico. Il maggioritario puro può comportare il rischio che chi vince, vinca troppo e in un contesto come quello italiano sarebbe inopportuno, considerato che una delle caratteristiche più deleterie della II Repubblica e la tendenza a manomettere le regole sulla base di interessi contingenti e di breve periodo. La quota proporzionale attribuita “ai migliori perdenti” con il principio del sistema d’Hondt e una forte soglia di sbarramento consentirebbe di garantire il necessario pluralismo parlamentare, senza polverizzare la rappresentanza.
Infine, l’abbandono del premio di maggioranza. Ritengo che le regole devono favorire governabilità e processi aggregativi, non imporli e vale la pena ricordare che il premio di maggioranza non esiste in nessuna grande e solida democrazia, mentre solo in Italia è stato adottato tre volte: con la legge Acerbo del 1923, la legge “Truffa” del 1949 e infine con la legge Calderoli del 2005. E se è sempre andata male, vorrà pur dire qualcosa…
Riassumendo, questo sistema cerca di soddisfare le tre esigenze ricordate in apertura: l’uninominale favorisce la responsabilizzazione dell’eletto (e la prevalenza di candidature trasversali su quelle identitarie); il recupero proporzionale circoscrizionale favorisce la rappresentanza delle forze più significative sul territorio. Infine, il gioco delle doppie preferenze, incentiva un “voto utile” che rafforza la dinamica politica bipolare, consentendo così all’elettore stesso di decidere non solo il partito ma anche l’alleanza.
Ma nel proporre questo sistema tengo a ricordare, innanzitutto a me stesso, che laddove mancano etica e virtù non saranno certo gli escamotage tecnici a ristabilirle. Ma si tratta di un altro discorso.

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