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ARTICOLO 18 TRA TABÙ ED EFFICIENZA

Nel dibattito sull’articolo 18 è utile confrontare il valore sociale della tutela rispetto al costo che comporta. Nonostante sia una forma di garanzia poco efficiente e ancor meno equa, i sindacati e i lavoratori le attribuiscono un alto valore simbolico. D’altra parte, l’analisi della propensione delle imprese a crescere in prossimità della soglia dei 15 dipendenti suggerisce che il costo sia modesto. Questa evidenza mette in dubbio che una riforma del mercato del lavoro debba necessariamente iniziare proprio dalla revisione dell’’articolo 18.

DUE CONTRATTI A CONFRONTO

Con l’apertura del tavolo sul mercato del lavoro, il governo Monti affronta un nodo cruciale del suo percorso riformatore. In questi giorni si è molto discusso del contratto unico di inserimento e del contratto di apprendistato, confondendo spesso le due tipologie contrattuali. Che invece si differenziano su alcuni punti essenziali. Per esempio, il contratto unico è a costo zero per le casse dello Stato, mentre non lo è quello di apprendistato. E si applica a milioni di lavoratori. Il contratto di apprendistato invece riguarda solo i giovani fino a 29 anni.

PA: TAGLIATORI DI TESTE CERCANSI

Dalla fase 2 del governo Monti è lecito aspettarsi il rilancio di un dibattito serio sulle riforme delle pubbliche amministrazioni. Perché a conclusione delle spending review si dovrà affrontare una serie molto ampia di ristrutturazioni aziendali in modo da ridurre i costi fissi e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. Si presenterà allora il problema di che fare del personale in eccesso. E serviranno previsioni normative e contrattuali finora del tutto assenti. Ma non basta: dovrà trovare spazio anche nel pubblico impiego la figura del tagliatore di teste.

GIOVANI E SENZA FORMAZIONE

Sempre più difficile per i giovani l’ingresso nel mercato del lavoro. Per una quota rilevante il percorso di avviamento al lavoro può durare anche diversi anni. Durante i quali l’apporto formativo on the job è insufficiente a garantire l’inserimento stabile nel mercato del lavoro. La formazione ricevuta scende con l’accorciarsi della durata dei contratti e diminuisce al diminuire del livello di istruzione, penalizzando quindi i meno istruiti con contratti di breve durata. Resta da risolvere il grave e diffuso problema degli abusi. Le sperimentazioni in alcune Regioni.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è sempre più al centro della discussione politica italiana. Penso però ci sia il rischio di assolutizzarlo pensando che una formula magica contrattuale possa tirarci fuori da sola dalla crisi, o, dall’altra parte, che essa possa rappresentare la garanzia assoluta della nostra stabilità lavorativa. Quando invece la tutela del lavoro e la creazione di nuovi posti dipendono da moltissime altre cose che fanno funzionare l’economia (produttività e competitività delle imprese, dinamica della domanda interna, capacità di penetrazione dei mercati esteri, innovazione, ecc.) Uno dei commenti più interessanti dei lettori è che non necessariamente il contratto unico d’inserimento si rivolge a giovani ma più generalmente a persone che iniziano un rapporto di lavoro in un’impresa e quindi non automaticamente questo tipo di contratto “calza a pennello” con i risultati stessi. I risultati che troviamo nel nostro articolo possono essere letti nel senso che i giovani hanno probabilmente più energie, risorse e speranze per poter fronteggiare un periodo di disoccupazione nel mondo del lavoro. Se crediamo a questa interpretazione che pare suffragata dai dati può essere ragionevole riflettere su come tenerne conto o attraverso la modifica della stessa idea del contratto unico d’inserimento o attraverso la costruzione di ammortizzatori che ne tengano conto quando il contratto non è offerto a giovani ma a lavoratori già avanti negli anni. Nella vecchia letteratura anglosassone di economia del lavoro ci si focalizzava molto sul concetto di lavoratore scoraggiato sottolineando come la disoccupazione di lungo periodo genera deterioramento delle proprie capacità e rende molto difficile il reinserimento nel mondo del lavoro. E per questo si ragionava su interventi speciali di welfare per combattere la disoccupazione di lungo periodo. Allo stesso modo dobbiamo ragionare su come fronteggiare efficacemente (o via contratto o via ammortizzatori) lo scoraggiamento di chi esce o è fuori dal mercato del lavoro ad età non più giovani. Da questo punto di vista è interessante la proposta di chiedere alle imprese di pagare parte del costo del licenziamento perché tale richiesta (i) le spinge a licenziare solo quando effettivamente e’ indispensabile e (ii) prima il lavoratore trova un nuovo impiego e prima smette di pagargli i contributi.

LA FELICITÀ IN UN CONTRATTO UNICO DEL LAVORO

Che impatto avrebbe l’introduzione di un contratto unico a tutela progressiva sul benessere degli italiani? Difficile rispondere. Ma un’indagine condotta su un vasto campione di cittadini europei con dati Eurobarometro dimostra come a subire di più i contraccolpi anche psicologici della condizione di disoccupazione sono gli individui nella fascia di età compresa tra i 42 ed i 64 anni. Proprio i lavoratori che nella proposta di contratto unico da tempo depositata in Parlamento sono i più protetti.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo i lettori per gli interessanti commenti ricevuti.
fRancY coglie una implicazione importante della nostra proposta: se lo squilibrio dei compiti familiari diminuisce, si riducono le ragioni per tassare donne e uomini in modo diverso; la tassazione preferenziale a favore delle donne è una misura flessibile da adeguare nel tempo a un contesto in evoluzione. Riguardo al suo secondo commento, non ci sentiamo assolutamente in diritto di dire che cosa le famiglie devono fare. Se pero’ il Paese ritiene che le donne siano una  “fonte di energia” che attualmente è in parte sprecata perchè troppo concentrata sulla famiglia e se al tempo stesso ritiene che gli uomini siano una “fonte di energia” troppo concentrata sul mercato, allora la leva fiscale è uno strumento semplice ed efficace per raggiungere un maggiore equilibrio e un uso migliore di entrambe le risorse. Forse anche gli uomini potrebbero essere usati piu’ efficientemente nell’educazione dei figli e nell’assistenza agli anziani. Se invece va tutto bene cosi’ allora lasciamo le tasse invariate ma smettiamo di parlare di 8 marzo e di differenze di genere … !
Matteo ricorda che esistono gia’ incentivi alle aziende, dal lato della domanda, per favorire l’occupazione femminile. Ci sono pero’ vari studi che mostarno la maggiore efficacia di agire con incentivi dal lato dell’offerta. La donna ha molto più interesse dell’azienda a usare bene l’incentivo.
Francesco Bloise dice che le retribuzioni dipendono dalla produttivita’, che la produttivita’ delle donne e’ inferiore per via dei carichi familiari e proprio per questo le donne sono pagate meno. E’ esattamente il presupposto (dimostrato dai dati) su cui si basa la nostra proposta . Se i carichi di lavoro fossero più equilibrati in famiglia, le aziende non percepirebbero le donne come relativamente meno produttive degli uomini. La tassazione preferenziale per le donne mira proprio a cambiare questa percezione. Riguardo al suo secondo commento, non e’ possibile che tutto l’incentivo dato alle donne si trasformi in margini di profitto: nella situazione limite in cui l’incentivo andasse tutto nelle tasche dell’azienda, la donna non aumenterebbe la sua offerta di lavoro e quindi anche il vantaggio per l’azienda si volatilizzerebbe. O non ci sono effetti, oppure sono distribuiti tra domanda e offerta. Ma non puo’ esserci solo un aumento dei margini di profitto.
Il problema della Costituzionalità è risolto dal secondo comma dell’Art. 3, che risolve analogamente il problema di ogni altra “azione positiva” (affirmative action). La legge (con approvazione bi-partisan) per il “rientro dei cervelli” prevede già agevolazioni fiscali maggiori per le donne, e non sono stati sollevati problemi di costituzionalita’. Il sistema fiscale italiano prevede agevolazioni per chi ha figli, anche a parità di produzione del reddito. Francamente trovo maggiori ragioni per incentivare il lavoro femminile piuttosto che i figli data la sovrapopolazione mondiale (io che ne ho 4 dovrei essere tassato).
Chiara Saraceno non vede come la tassazione possa risolvere i problemi di conciliazione famiglia e lavoro, da lei considerati solo un problema delle donne! Noi non capiamo come lei non veda che non si puo’ continuare a chiedere di risolvere i problemi della conciliazione famiglia-lavoro alle aziende o allo stato. O per lo meno, prima di chiedere alle aziende o allo stato di risolvere il problema, chiediamolo agli uomini direttamente in famiglia: ci sembra piu’ semplice e trasparente. Quello che  Saraceno propone equivale a prendere l’aspirina per curare i sintomi e ridurre il dolore, senza curare le vere cause della malattia: peggio, dilazionando il bisogno di andare dal dottore per eliminare davvero le cause!
Senza incentivi, per forza la maggiore occupazione femminile non fa aumentare il contributo maschile al lavoro familiare! Proprio questo e’ il punto che giustifica la la leva fiscale a favore delle donne.
Quanto ai dati, il fatto che in USA e UK le donne anche a bassa istruzione e reddito lavorino di più che in Italia è sotto gli occhi di tutti.

PERCHÉ È UTILE TASSARE MENO LE DONNE

Un governo che volesse realizzare una riduzione della pressione fiscale per stimolare la crescita economica, otterrebbe risultati maggiori concentrandola sulle sole donne. La minore aliquota sui redditi delle donne si applicherebbe poi a una base imponibile maggiore e quindi il gettito fiscale diminuirebbe poco. Non è la mancanza di servizi di cura a tenere le donne lontane dal mercato del lavoro, ma una divisione dei compiti squilibrata all’interno della famiglia. La tassazione differenziata per genere aiuta a cambiare una mentalità che non ha più alcuna giustificazione.

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, DALLA RETORICA AI FATTI

La modernizzazione della pubblica amministrazione è una questione cruciale per l’Italia, non solo perché ce lo chiede l’Unione Europea, ma perché servizi pubblici efficienti e di qualità sono un’importante risorsa per cittadini e imprese. Il miglioramento dei servizi pubblici arriverà attraverso il lavoro sul campo, la capacità di gestire le organizzazioni pubbliche e l’abilità di diffondere le innovazioni. Per farlo non servono nuove leggi. Ma si deve passare da una prospettiva autoreferenziale a una rivolta all’esterno, che parta dalle esigenze degli utenti.

MENO TASSE PER TUTTE? PROPOSTA A RISCHIO

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