La spesa sanitaria sostenuta direttamente dalle famiglie italiane continua a crescere. Di conseguenza aumentano anche detrazioni e deduzioni fiscali. Le misure adottate sinora sono solo un primo e insufficiente passo per limitare il ricorso al privato.
Quanto hanno speso le famiglie
La spesa sanitaria privata di tasca propria (out of pocket) continua a crescere in Italia, come certificato dal sistema dei conti pubblici nazionali. L’Istat stima che la spesa privata a giugno 2019 sia passata da 33 miliardi e 930 milioni del 2016 (pari al 22,7 per cento della spesa sanitaria corrente e al 2 per cento del Pil) a 35 miliardi. L’andamento degli ultimi anni risulta costantemente in crescita, con tassi del 4,5 per cento tra 2014 e 2015 e dello 0,4 per cento tra 2015 e 2016.
L’Istat riporta che nel 2016 si è trattato di spesa in cura e riabilitazione per il 42,4 per cento, in farmaci e apparecchi sanitari per il 38,9 per cento e in assistenza sanitaria a lungo termine per il 10,2 per cento. Una ripartizione che non permette di capire se si tratti di una spesa complementare (o integrativa, come preferiscono dire le disposizioni ufficiali sulla sanità privata) o di una spesa sostitutiva rispetto ai livelli essenziali di assistenza (Lea) sanciti dal Servizio sanitario nazionale.
Anche il ministero dell’Economia e Finanze ha di recente pubblicato dati sulla spesa sanitaria dei cittadini. Sono i dati trasmessi all’Agenzia delle Entrate, nell’ambito del Sistema tessera sanitaria, dai soggetti erogatori di prestazioni sanitarie, al fine della dichiarazione dei redditi: il totale ammontava a 30 miliardi e 48 milioni nel 2017 e a 32 miliardi e 29 milioni nel 2018.
Per quanto riguarda la tipologia delle spese segnalate dai soggetti erogatori, nel 2018 si è trattato per 9 miliardi e 51 milioni di prodotti acquistati nelle farmacie, per 7 miliardi e 49 milioni di visite mediche (di cui 4 miliardi e 85 milioni per visite odontoiatriche), di 6 miliardi per prestazioni in strutture private accreditate e di 4 miliardi e 100 milioni per prestazioni in strutture sanitarie autorizzate. In termini di tipologie di spesa e struttura di erogazione, sempre per il 2018 (figura 1), il 44,7 per cento della spesa ha riguardato visite e interventi medici, di cui il 32 per cento per prestazioni odontoiatriche, il 24 per cento per prestazioni in strutture autorizzate, il 20 per cento per prestazioni in strutture private, il 17 per cento per visite mediche non odontoiatriche e il 7 per cento per prestazioni in strutture pubbliche. Oltre alle visite e agli interventi medici, la spesa ha riguardato per il 15 per cento l’acquisto di farmaci, per il 10,3 per cento il pagamento del ticket, per il 10 per cento l’acquisto di dispositivi medici e per quasi il 18 per cento altre spese.
Anche i numeri forniti dal Mef sui soggetti erogatori e sulle tipologie di prestazioni pagate direttamente dai cittadini risultano poco utili per capire se si sia trattato di prestazioni complementari o integrative oppure di prestazioni sostitutive rispetto al Ssn.
Perché si ricorre al privato
La regione nella quale la spesa privata risulta più elevata è la Lombardia (7 miliardi e 65 milioni sempre nel 2018), seguita a notevole distanza dal Lazio (3 miliardi e 53 milioni), dal Veneto (3 miliardi e 26 milioni), dall’Emilia Romagna (3 miliardi e 9 milioni) e dal Piemonte (2 miliardi e 62 milioni). Si conferma quindi la tendenza a spendere di più in termini di out of pocket nelle regioni più ricche, che sono anche quelle dotate di un sistema sanitario pubblico più efficiente.
Per capire meglio quali siano le motivazioni della spesa diretta, risultano utili gli studi effettuati recentemente da Crea-Sanità. Se ne ricava che il ricorso al privato ha spesso a che fare con i tempi di accesso alle prestazioni e i relativi costi. I tempi di attesa nelle strutture pubbliche e private convenzionate risultano infatti notevolmente più lunghi, in alcuni casi anche dieci volte superiori, rispetto a quelli delle strutture private e rispetto a quelli delle prestazioni fornite nel pubblico in regime di intramoenia. Mentre i differenziali in termini di spesa tra ticket e costo della prestazione nel privato o in intramoenia sono molto meno accentuati (si tratta nella maggior parte dei casi di un rapporto di uno a due o di uno a tre).
La maggior parte della spesa privata non è intermediata da soggetti terzi, quali compagnie assicurative e fondi sanitari, e come tale è soggetta a un rischio particolarmente elevato in termini di mancata appropriatezza e di consumismo sanitario autogestito, una anomalia italiana spesso sottolineata (ad esempio dalla Fondazione Gimbe). Sappiamo anche che l’ammontare delle spese sanitarie portate in detrazione nella dichiarazione dei redditi è stato nel 2018 pari a 18 miliardi e 500 milioni di euro, di cui 3 miliardi e 300 milioni per ticket. Mentre le deduzioni per la sanità integrativa ammontavano, sempre nel 2018, a 6 miliardi e 355 milioni. Ma, soprattutto, dal punto di vista della gestione strategica del Servizio sanitario universalistico, la spesa privata di tasca propria in sanità è generatrice di iniquità, in quanto favorisce i cittadini e le famiglie con maggiori disponibilità economiche.
Le possibili soluzioni a questa situazione problematica stentano a farsi strada e la discussione oscilla tra l’opzione di un rifinanziamento molto consistente del Ssn, che elimini – o quanto meno attenui – i tempi di attesa per l’accesso alle prestazioni e le altre disfunzioni del pubblico e le ipotesi che privilegiano una revisione sostanziale del regime della cosiddetta sanità integrativa, con definizione più precisa di compiti e responsabilità del secondo pilastro di offerta.
L’abolizione del superticket dal 1° settembre 2020, l’aumento di 2 miliardi del Fondo sanitario nazionale e lo stanziamento di due fondi di 500 milioni ciascuno per farmaci innovativi oncologici e non, previsti nel Documento di economia e finanza per il 2020, mirano sicuramente a favorire l’equità e l’universalismo delle prestazioni, abbattendo i costi a carico degli utenti e cercando di migliorare e di ampliare l’offerta, ma l’intervento è ancora troppo debole rispetto alla realtà della spesa sanitaria privata italiana.
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