La cannabis light è arrivata in Italia nel 2017 grazie a una “liberalizzazione involontaria”. Dove sono stati aperti più negozi sono diminuiti i sequestri di stupefacenti e la vendita di tranquillanti. Ora però serve una regolamentazione del fenomeno.
Un mercato non regolamentato
Di cannabis light in Italia si parla da quasi due anni. Nelle città italiane sono arrivati i cannabis shop, i distributori automatici di infiorescenze e crescono anche le start-up che consegnano il prodotto a domicilio. Tuttavia, gli effetti del fenomeno sono poco conosciuti. Proviamo a capirne di più.
La cannabis light è arrivata in Italia nel maggio 2017 a seguito di una “liberalizzazione involontaria” del mercato consentita dalla legge 242/2016. La legge nasceva con l’intento di stimolare la crescita del settore della canapa industriale, storicamente presente in Italia, e utilizzata per la produzione di vestiti, farina, cosmetici. A differenza della canapa destinata ad altri scopi (ad esempio, medico o ricreativo), la canapa industriale è sottoposta a rigide limitazioni nella quantità massima di uno dei principi attivi che la contraddistinguono, il tetraidrocannabinolo (Thc), la cui quantità ammissibile deve essere inferiore allo 0,2 per cento. Questo la rende priva di effetti psicotropi e ricca di effetti rilassanti a causa della naturale alta concentrazione di cannabidiolo (Cbd).
Tuttavia, nel regolamentare la canapa industriale, la legge ha di fatto lasciato un vuoto normativo relativamente alla sua commercializzazione a uso ricreativo. Così, a pochi mesi dalla legge, alcune start-up hanno sperimentato la vendita delle infiorescenze nella forma di “prodotto tecnico”, una definizione vaga che implica che il prodotto venga utilizzato per collezionismo e non per combustione o consumo. Da lì, la vendita di questi prodotti è diventata un fenomeno sociale (figura 1).
Il mercato illegale della cannabis: meno confische e meno sequestri
In uno studio recentemente pubblicato abbiamo verificato l’effetto di spiazzamento della cannabis light, rispetto alla marijuana illegale, sempre più spesso commercializzata da organizzazioni criminali, e con un alto contenuto di Thc (sino al 25 per cento). Utilizzando dati di polizia sui sequestri e monitorando il mercato della canapa industriale e dei rivenditori di cannabis light prima e dopo l’arrivo dei cannabis shop, la ricerca ha documentato l’entità del danno per le organizzazioni criminali. Più precisamente, ha dimostrato come nelle province con maggiore concentrazione di rivenditori ci sia stata una riduzione delle confische di prodotti stupefacenti da parte della polizia. Per ogni grow-shop, nel breve arco temporale considerato, la liberalizzazione ha comportato una riduzione di circa l’11 per cento dei sequestri di marijuana e dell’8 per cento di hashish. Ciò è avvenuto a parità di operazioni di polizia e ha comportato anche una riduzione del numero di arresti per reati di droga.
Effetti sull’automedicazione
In un secondo studio abbiamo analizzato gli effetti della disponibilità a livello locale della light cannabis sul consumo di diverse tipologie di farmaci di fascia. A differenza della marijuana a scopo terapeutico, che in Italia è prodotta dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, la cannabis light non è clinicamente testata e, secondo la normativa, non dovrebbe essere consumata.
Utilizzando dati mensili sulle vendite di farmaci a livello provinciale e monitorando l’ingresso sul mercato locale dei cannabis shop, abbiamo riscontrato come la maggiore disponibilità del prodotto abbia indotto alcuni pazienti a sostituire farmaci tradizionali con la cannabis light. L’apertura di almeno un cannabis shop all’interno di una provincia ha comportato la riduzione di circa l’11 per cento del numero di confezioni vendute di ansiolitici e del 10 per cento di quelle di sedativi. Minori ma interessanti riduzioni sono state osservate anche per gli anti-psicotici (-5 per cento circa) e per diversi altri farmaci che richiedono la prescrizione di un medico, come ad esempio anti-epilettici, anti-depressivi, oppioidi, anti-emicranici (-1 per cento). Gli effetti più marcati sono stati evidenziati a partire dal terzo mese dopo l’apertura di un cannabis shop.
Mercato da regolare
I risultati dello studio permettono di fare alcune considerazioni sulla regolamentazione di questo mercato. Forme di liberalizzazione (e più propriamente di legalizzazione) possono effettivamente contrastare le attività criminali. In modo quasi sorprendente, questo può avvenire anche con una liberalizzazione più moderata, ovvero con la cannabis light, che non presenta effetti psicoattivi. Le prime stime, effettuate nel brevissimo periodo successivo all’introduzione della cannabis light e prima che diventasse il fenomeno sociale che è adesso, suggeriscono che le risorse sottratte alle organizzazioni criminali possono essere di almeno 90-170 milioni di euro. Una quota molto piccola rispetto al giro di affari delle organizzazioni criminali, che ammonta a circa 3,5 miliardi di euro all’anno, ma comunque rilevante per una liberalizzazione involontaria.
Tuttavia, a fianco dei benefici, lo stato deve tenere in considerazione anche i potenziali effetti collaterali derivanti dal comportamento spesso rischioso degli utenti. In particolar modo, l’utilizzo incontrollato della cannabis light come forma di automedicazione necessita di un’attenta analisi da parte del legislatore. Una più chiara regolamentazione del fenomeno a partire da limiti di età, attualmente inesistenti, e una campagna comunicativa volta a scoraggiare l’utilizzo al posto di cure tradizionali possono essere iniziali strumenti per ridurre potenziali effetti negativi del fenomeno.
Figura 1

La mappa mostra l’ingresso nel mercato provinciale dei principali rivenditori di cannabis light nel periodo compreso da maggio 2017 a febbraio 2018.
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È Professore Associato di Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia dell’Università "Magna Graecia" di Catanzaro e Ricercatore affiliato all’Health, Econometrics and Data Group dell’Università di York ed al RWI Research Network- Leibniz Institute for Economic Research di Essen. Ha conseguito un dottorato in Economia Applicata presso l’università della Calabria ed una PHd Specialization in Health Economics and Policy presso l’Università di Losanna. Si occupa prevalentemente di temi di economia sanitaria, disuguaglianze di reddito e di salute.
https://sites.google.com/view/vincenzocarrieri
Leonardo Madio, Senior Assistant Professor (Ricercatore a tempo determinato di tipo B) presso l’Università di Padova e Visiting Associate Professor presso la Toulouse School of Economics. È Research Affiliate presso il CESifo (Munich) e presso l’Health, Econometrics and Data Group (HEDG) dell’Università di York, dove ha conseguito il Ph.D in Economics. Ha ricoperto ruoli di postdoc alla Toulouse School of Economics e al CORE (Centre for Operations Research and Econometrics) dell'Université catholique de Louvain. Dal 2020 al 2023, è stato "Unicredit & Universities Foscolo Europe Fellow" presso l'Università di Padova e ha svolto periodi di visiting all'ESMT Berlin. Si occupa principalmente di economia digitale e delle piattaforme, di regolamentazione dei mercati, ed altri temi di economia pubblica ed industriale. Pubblicazioni ed informazioni sulla più recente attività di ricerca sono disponibili sul sito: http://www.leonardomadio.eu/
Ricercatore in Politica Economica presso l’Università di Padova. Ha precedentemente svolto attività di ricerca presso l’Erasmus School of Economics di Rotterdam ed è ricercatore affiliato all’Health, Econometrics and Data Group dell’Università di York. Si occupa di economia della salute e micro-econometria applicata con particolare interesse per comportamenti in tema di salute, valutazione delle politiche sanitarie e determinati dei super-redditi.
Giuliano Gavazzi
correggete il link al secondo articolo, non è corretto, punta a un lavoro scorrelato. L’errore è di un unità 1908 invece di 1907, ecco il link corretto: https://www.york.ac.uk/media/economics/documents/hedg/workingpapers/1907.pdf
Giuliano Gavazzi
Oltre alla rettifica del link al secondo lavoro che vi ho mandato, vi segnalo che non mi pare corretta l’affermazione di un limite dello 0.2% di THC. La Cassazione sez VI ha in una sentenza sentenziato a favore della commercializzazione, ponendo, se non erro, il limite al massimo consentito dalla legge 242/16 e cioè allo 0.6% di THC. A fine mese le sezioni riunite dovranno esprimersi.